Sentenza “normale”, processo demenziale

“Meglio tardi che mai” è una delle tante espressioni in cui si manifesta l’assuefazione alle peggiori nefandezze della cosiddetta giustizia che delizia il nostro Paese.

Le reazioni che, pur in tono sommesso e inframezzato ad altre di genere opposto, si sono avute alla sentenza di Palermo nel processo cosiddetto della “Trattativa Stato-Mafia”, certamente più numerose ed esplicite di quante se ne siano avute in passato per una qualsiasi delle esorbitanze dei furori “antimafia”, ha fatto sì che persone di buon senso e non prive di un minimo di coraggio civile abbiano poi preso atto di esse, con la considerazione rassegnata “meglio tardi che mai”. “Meglio tardi che mai”, intendiamoci: quei commenti sconsolati riguardavano, non la sentenza ma i “moderati” e tardivi commenti negativi ad essa.

Nossignori. Non basta e non è cosa di cui rallegrarsi nemmeno un po’, considerare sintomo di sopravvivenza del buon senso e della decenza nell’uso e anche nell’abuso della giustizia, se la sentenza che ha concluso quell’indecente processo non ha travato le solite unanimità del compiacimento e dei consensi. Ciò non basta. Né sarebbe bastato neanche se più gagliardo, esteso e rumoroso fosse il dissenso. Perché “tardi”, cioè a sentenza pronunziata, il dissenso (che per essere adeguato dovrebbe essere esecrazione, denunzia, ribellione!) significa che quel processo, quegli “addebiti”, quella “selezione” degli imputati, quella messa in scena durata anni e anni, quel ripetersi di sconci tentativi di “tirarci dentro” le massime autorità dello Stato, avrebbero “dovuto e potuto avere” una conclusione diversa, che la loro esecrabilità risiede nel fatto che quelle accuse non erano state riconosciute “fondate”. Che, insomma, la nefandezza, il carattere eversivo, lo sconcio delle carriere che impudicamente si sono volute creare con quelle baggianate, avrebbero avuto segno negativo e lo hanno avuto solo se ne fosse seguita una condanna, non per il fatto del processo in sé.

La tardività del “risveglio critico” è, insomma, una mezza accettazione della “normalità” di un processo in sé demenziale, se non delittuoso. Nel corso degli anni in cui la storia della misteriosa “Trattativa” ha riempito le cronache, indecifrabili per la gran massa dei cittadini, solo un giurista siciliano, Fiandaca, ha osato levare una critica forte, ma, tuttavia non adeguata, all’uso e abuso di quel processo. Questo mentre veniva fatto l’uso di “risultanze” del processo stesso che non potrebbe immaginarsi più spregiudicato e velenoso e non solo contro le solite vittime della violenza giudiziaria di questi anni.

Di questo processo, un giorno, dovrà riconoscersi che l’unico dato di verità è stato rappresentato dall’assurdità del “nome d’arte” dato a esso e all’accusa in esso sostenuta: “Trattativa Stato-Mafia”. Processo a uno Stato con ciò indicato come criminale e capace di commettere crimini, le volontà delle Istituzioni dal quale non solo non sono in sé legittime, ma soggiacciono a valori (si fa per dire) esterni e superiori. Il ritorno, cioè, al Medioevo, l’accettazione di un komeinismo senza il Corano.

Il resto, lo stesso esito, le condanne, la gaffe di Nino Di Matteo (... rei di aver... trasmesso le minacce...), le speculazioni, le carriere dei gaglioffi cialtroni, la paura di rompere le uova nel paniere alla congrega eversiva direttamente impegnata nell’operazione, sono tutte cose secondarie, conseguenze purulente.

Ai carabinieri, a Marcello Dell’Utri, ai “rei” di aver rappresentato lo Stato nell’immaginaria trattativa va, naturalmente, la nostra solidarietà. Sono le principali vittime di un crimine che colpisce anche noi, tutti i cittadini e la stessa Repubblica.

Aggiornato il 23 aprile 2018 alle ore 19:40