Il pensiero debole del Quirinale

Uno dei miti più celebrati dalla politica è la sacralità del ruolo del Presidente della Repubblica. Ad esso si accompagna la fallace convinzione dell’infallibilità del Capo dello Stato. Invece, anche i presidenti sbagliano e l’attuale Capo dello Stato si è dimostrato fallace quanto se non più dei suoi predecessori. Se a oltre 80 giorni dal voto si avverte ancora il rischio che il negoziato per la formazione del governo possa saltare la colpa non è tutta dei protagonisti partitici ma va spartita con l’inquilino del Colle. Di là dall’immagine stereotipata del nocchiero che guida con mano sicura la più alta istituzione repubblicana, la realtà ci restituisce un Mattarella schiacciato dalla pressione esercitata su di lui da molteplici fattori esogeni alle meccaniche proprie della democrazia.

Sebbene non siano i tempi del Montesquieu ma quelli di una società complessa che si regge sull’azione concorrente di un più ampio numero di poteri rispetto alla tradizionale tripartizione Legislativo-Esecutivo-Giurisdizionale, l’impressione che si ricava dalla condotta del presidente della Repubblica è che, pur rifiutando di farsi dettare i comportamenti dalla forze partitiche in campo, egli abbia di buon grado chinato il capo alle pretese e ai diktat provenienti da quei poteri le cui dinamiche non sono visibili all’occhio nudo della democrazia. Mattarella se avesse voluto rispettare la volontà degli italiani avrebbe dovuto consentire alla coalizione di centrodestra di provare a comporre una maggioranza in Parlamento. Non l’ha fatto. Ha invece optato per un’anomalia contentandosi d’investire dell’onere della formazione del Governo un candidato che è espressione di un compromesso al ribasso tra la Lega e i Cinque Stelle.

L’incaricato professore Giuseppe Conte sarà certamente un’eccellente persona ma chi rappresenta nella sostanza? Senza un’adeguata esperienza politica, senza un mandato forte dell’elettorato, catapultato dalla sera alla mattina da un’aula universitaria alla poltrona di Palazzo Chigi, Conte rischia di fare la fine del vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. L’unico modo per rimediare al vulnus che dà origine al patto di governo sta nel compensare la scelta di Conte con la selezione di una compagine ministeriale di elevato spessore individuale e di forte legittimazione popolare. Mattarella ha fatto sapere che non avrebbe posto veti sui nominativi ma neanche accettato imposizioni, presumibilmente dal duo Salvini-Di Maio. Si tratta di un clamoroso autogoal.

Il Presidente si è infilato in cul-de-sac. Comunque vada, ne esce perdente. Sul “nodo Savona”, ad esempio. Se ne accetta la designazione dà la sensazione che Salvini, che punta sull’economista cagliaritano al ministero dell’Economia, abbia vinto la prova di forza. Se invece lo estromette offre il fianco a una lettura ben più pericolosa di quella che mette al centro le pretese del leader leghista. L’opinione pubblica ha compreso che Paolo Savona non sia gradito a Berlino per le sue teorie sulla volontà di potenza connaturata a tutti i governi germanici, democratici e non. L’esclusione dalla lista, anche a dispetto delle sue indiscusse qualità di esperto mondiale di modelli economico-politici, verrebbe percepita come un’inaccettabile resa ai diktat tedeschi. Ora, qualcosa il voto del 4 marzo ha chiarito: la maggioranza degli italiani vive con insofferenza il rapporto con gli organismi dell’Unione europea. L’istanza è quella che si giunga a un rapido riequilibrio di peso specifico del sistema-Paese nell’ambito comunitario.

Silurare in questa fase Savona sarebbe come la pistola fumante sulla scena del crimine. Nella considerazione degli italiani Mattarella figurerebbe come il responsabile unico della resa. Non è questione di share: non siamo in un programma televisivo che deve fare ascolti. Mattarella non può ignorare le motivazioni che hanno condotto la maggioranza degli elettori ad esprimere un voto di marcata protesta contro quello status quo, voluto e draconianamente presidiato dalle élite comunitarie di stanza a Bruxelles e nelle principali capitali europee. Cosa accadrebbe se la gente si convincesse che votare non serve a nulla perché qualunque sia l’esito al vertice dello Stato c’è qualcuno che s’incarica di neutralizzarne gli effetti? Si spalancherebbero le porte a soluzioni extra-parlamentari ed extra-istituzionali delle crisi politiche.

Già da tempo è in corso, da parte del Movimento Cinque Stelle, un’opera di delegittimazione del parlamentarismo in favore della democrazia diretta e plebiscitaria. Da qui all’approdo della volontà popolare nelle piazze incendiarie il passo è breve. Mattarella, per tirarsi fuori d’impaccio dalla situazione che ha creato deve optare per il male minore. E c’è solo un indizio che possa aiutarlo a imboccare il sentiero giusto ancorché strettissimo: con un singolo individuo si può dialogare e magari convincerlo a correggere la rotta, se occorre. Mentre a un popolo che si mette in marcia non gli si fa cambiare strada con una pacca sulla spalla.

Aggiornato il 25 maggio 2018 alle ore 13:55