Raccontare la giustizia

C’è un rassegnato giustificazionismo che caratterizza, anche inconsciamente – il che è peggio come spiega Freud – l’attuale tendenza ad abbassare anche gli intellettuali e la classe dirigente al gradino più basso della consapevolezza “plebea”. Ad esempio, nell’interessantissimo credito formativo intitolato “Raccontare la giustizia”, cui ho avuto l’onore di partecipare come tanti altri lunedì nella sede della Stampa estera a Roma, ho sentito teorizzare da un noto giornalista che la parola “preterintenzionale” sarebbe troppo difficile da usare in un articolo giornalistico o in un servizio televisivo. E che quindi un esempio di buona comunicazione al cittadino dovrebbe portare ad escluderla. Ora è evidente che basta aver studiato il latino alle scuole medie per conoscere che “praeter” è un prefisso che indica l’oltrepassare. In questo caso l’intenzione in un delitto. Per cui l’omicidio preterintenzionale è quello in cui si cagiona la morte di qualcuno ad esempio colpendolo con un pugno provocando l’accidentale caduta e la morte perché la persona ha, ad esempio, sbattuto la testa contro il ciglio della strada.

Altri, come ad esempio un magistrato da poco diventato presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Francesco Minisci, si sono giustamente lamentati del fatto che oggi i giornalisti non seguano più i processi in aula. Ebbene, va contestata questa impostazione “fatalista” del degradarsi della cultura: “mala tempora currunt”? “Currunt” perché li fanno correre. Non lo fanno da soli, i famigerati tempi. No, è un’ipocrisia voler fare finta di credere che ciò sia caduto dal cielo. Da anni queste scorciatoie della comunicazione sono alla base non solo dell’impoverimento culturale e politico di un intero Paese, ma sono diventate anche comode scorciatoie tanto per vendere più copie di determinati giornali quanto per alzare l’audience di una determinata trasmissione televisiva, di quelle così deprecate a parole in questi corsi di formazione.

Alla stessa maniera, questo degradarsi dell’intelligenza e della consapevolezza generale è alla base del deterioramento apparentemente inarrestabile della “offerta” politica possibile di un Paese come il nostro in cui solo quarant’anni prima il cittadino medio non era così sprovveduto e ignorante da farsi infinocchiare da propagande politiche becere come quelle attuali. Anche se poi le promesse pre-elettorali le facevano tutti i partiti in maniera esagerata lo stesso. Alla fine, una scorciatoia ha tirato l’altra e adesso ci godiamo i risultati, non so se mangiando i pop-corn o facendoceli andare di traverso. Semplificazione comunicativa, semplificazione del linguaggio politico e semplificazione dello stato di diritto fino a farlo diventare “non più tale”. E la formula magica, il mantra, è sempre lo stesso: “La gente queste cose non le capisce”. Mentre la frase onesta intellettualmente sarebbe un’altra: “Non si vuole che la gente capisca determinate cose, si formi una propria consapevolezza e decida di conseguenza”.

La giustizia, la comunicazione e la politica vengono così officiate da presunti sacerdoti che spesso si rivelano essere dei pifferai magici. È il famoso diritto di “conoscere per deliberare” di einaudiana memoria di cui ha parlato fino al giorno della sua morte Marco Pannella e di cui i radicali transnazionali parlano ancora. E questo diritto-dovere di ogni persona si porta dietro anche il concetto stesso di “stato di diritto” nonché quello di “certezza del diritto”. I giornali e gli editori si portano dietro il peccato originale di questa scorciatoia: quando io iniziavo a fare il giornalista tutti i colleghi della giudiziaria seguivano i grandi processi. Quelli di terrorismo brigatista come Moro e “7 aprile”, quelli di mafia, lo scandalo Lockheed, il cui dibattimento si celebrò davanti alla Consulta, e via dicendo.

Poi arrivò l’era di “zio Michele” di Avetrana, del “giallo di Erba”, del delitto Franzoni e del caso Meredith. Fu una scelta precisa promuovere questo tipo di giornalismo a scapito di quello precedente. Su cui letteralmente si sputò. E fu anche una scelta miope, se è vero come è vero che oggi giornali come il Corriere della Sera vendono un decimo di quello che vendevano negli anni Settanta. Forse in questi corsi di formazione - peraltro molto utili - che dibattono sul “raccontare la giustizia”, si dovrebbe avere il coraggio di fare un passo in più nella denuncia delle concause che hanno portato il giornalismo in Italia a essere un morto che cammina nella precarietà, persino quella delle condizioni economiche del proprio istituto previdenziale. E la giustizia italiana a venire condannata davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo a giorni alterni. Quanto alla consistenza culturale della odierna politica, stendiamo il classico velo pietoso.

Aggiornato il 12 giugno 2018 alle ore 18:13