Brexit docet

Le dimissioni di David Davis, ministro alla Brexit e di Boris Johnson, ministro agli affari esteri del governo britannico di Theresa May, dovrebbero far riflettere tutti i nostri amici “sovranisti”. Quando David Cameron, il precedente premier conservatore, indisse, come si ricorda, il referendum sulla secessione del Regno Unito dall’Unione europea (usiamo i termini come andrebbero usati), nel convincimento che i sudditi di Sua Maestà Britannica avrebbero deciso di restare nell’Ue. Gli industriali britannici, infatti, premettero in tal senso, terrorizzati d’esser tagliati fuori dal primo mercato al mondo, per interscambio interno. Johnson, allora sindaco di Londra, si mise, invece, in pratica alla testa dei secessionisti. Il risultato fu che al referendum del 23 giugno del 2016 il 51,9 per cento dei britannici votò la secessione. Si aprirono i negoziati con la Commissione europea, il governo dell’Ue. Oggi, siamo a luglio del 2018, quei negoziati non si sono ancora chiusi. Il motivo è molto semplice: non solo gli industriali britannici, ma ogni persona di buon senso, con la testa sulle spalle, sa che nel momento in cui la Gran Bretagna diviene uno Stato terzo rispetto all’Unione europea, essa dovrebbe uscire dall’unione doganale e dal mercato interno. Gli industriali terrorizzati, però, hanno spinto il governo di Theresa May a chiedere di poter rimanere entro l’unione doganale e nel mercato interno, pur dopo aver lasciato le istituzioni supernazionali dell’Unione. Il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, rispose, e fece null’altro che il suo mestiere. Non si può prendere dall’Unione solo ciò che fa comodo.

La Gran Bretagna insiste su quella richiesta. Un’unione doganale, però, non è una zona di libero scambio. In una zona di libero scambio circolano liberamente solo le merci prodotte nei Paesi aderenti. Esse funzionano malissimo. Infatti, in tutti i prodotti ci sono componenti che vengono dall’esterno. Ad esempio il rame dei fili della lampadina viene in gran parte dal Cile. Bisogna, quindi, decidere, in questo assemblaggio globale, quando un bene possa considerarsi prodotto in uno Stato aderente alla zona di libero scambio. L’unione doganale taglia la testa al toro: tutto l’importato da Stati terzi paga una dogana comune, ma poi è posto in libera pratica all’interno della stessa, come se ivi fosse stato prodotto. Le merci circolano liberamente ed in modo fluido. Perché ciò avvenga realmente, la produzione, però, deve essere disciplinata da norme comuni, frutto di politiche comuni, e questo non può riguardare solo le merci e non gli altri fattori produttivi, cioè i lavoratori e il capitale. Nel tira e molla del negoziato, il governo britannico non ha potuto ignorare questa realtà dei fatti: per continuare a chiedere di restare entro l’unione doganale ed il mercato interno, ha dovuto dirsi disposto ad accettare le normative comunitarie. Esse sono poste dalle istituzioni supernazionali: proposte dalla Commissione, votale dal Parlamento e dal Consiglio europeo. A queste istituzioni partecipano gli Stati membri dell’Unione e loro cittadini, non gli Stati terzi e loro cittadini.

Ciò vuol dire che la Gran Bretagna dovrebbe accettare norme alla cui formazione non partecipa. La secessione dall’Unione europea porterebbe il Regno Unito, in buona sostanza, ad essere declassato da Stato membro dell’Unione, compartecipe delle sue politiche, a colonia della stessa. Ed il fu Impero britannico ben sa cosa vuol dire. Per questo due ministri, che prima d’esser tali sono uomini con una loro dignità, che nella Brexit ci hanno messo la faccia, si sono dimessi. Lezione per i “sovranisti”: non si debbono usare le parole senza riflettere sul significato. La sovranità, cioè un potere politico che non conosce superiori, richiede tre cose: un ciclo auto-riproduttivo della ricchezza autonomo, ch’esso generi risorse sufficienti, garantito un benessere che assicuri la pace sociale interna, per finanziare una difesa esterna in grado di garantire in via indipendente le frontiere dello Stato e gli interessi della Nazione, una politica estera, di conseguenza, indipendente.

Queste tre condizioni non ricorrono, in Europa occidentale e centrale, dal periodo napoleonico. L’impero napoleonico, nonostante l’economia di guerra con blocchi navali e requisizioni, avviò la rivoluzione industriale sul continente, si pensi alla Germania renana ed all’Italia cisalpina, in quanto ebbe le dimensioni adeguate per le condizioni d’esercizio della sovranità. La Gran Bretagna l’aveva da un secolo, poiché la costruzione dell’Impero sui mari la dotò di tali requisiti. Essa fermamente volle la distruzione dell’Impero napoleonico, aggredito dalle diverse coalizioni da essa messe in piedi, in quanto volle uccidere il temibile concorrente. Gli Stati Uniti d’America sono la maggiore potenza al mondo poiché, a fine Settecento, le colonie liberatesi si costituirono in federazione per avere, volutamente e consapevolmente, le dimensioni necessarie. L’Italia ebbe il suo Risorgimento perché Cavour ben si rese conto della realtà, e pose la questione italiana come europea nelle Conferenze internazionali; e Giuseppe Garibaldi, prima di rimettere la dittatura sull’Italia meridionale in nome di Vittorio Emanuele, tentò d’aprire gli occhi a tutti con un memorandum alle potenze europee per chiedere la costituzione di Stati Uniti d’Europa. L’Unione europea è il risultato, incompleto e con molti difetti, dei tentativi fatti, nel Novecento, di superare l’insufficienza di Stati nazionali che si combatterono in una vera guerra civile in più fasi. Guerra civile, giacché conflitto armato per stabilire chi dovesse esercitare l’imperio sull’Europa occidentale, unica possibilità d’una sovranità. Gli amici “sovranisti” s’esaltano all’esempio di Donald Trump, ma egli è sovranista per forza, è il presidente d’una federazione continentale costituita a fine Settecento, con l’intento d’avere la giusta dimensione per essere sovrana. Egli non ama l’Unione europea poiché, negli ambiti in cui funziona, è in grado di tenergli testa. Non ama consessi ed organizzazioni internazionali in quanto, in essi, più Stati in disaccordo con lui possono coalizzarsi. Predilige gli accordi bilaterali, così che possa trattare, con tutto il peso degli Stati Uniti, con ectoplasmi senza forza e, quindi, succubi.

Gli amici sovranisti anti-americanisti prediligono Vladimir Putin, il presidente della Federazione Russa, cioè dello Stato col territorio più esteso al mondo, ed il cui disegno eurasiatico è un deciso programma imperiale. Ciò non vuol dire che la Russia non sia una parte della civiltà europea, penso che la letteratura europea del Novecento non abbia capolavoro più grande del “Maestro e Margherita” di Michail Bulgakov. Il luogo, però, di confronto fra l’Unione europea, i suoi Stati membri e la Federazione Russa c’è: è il Consiglio d’Europa, l’organizzazione di 47 Stati aderenti del Continente antico di cui la Russia è entrata a far parte dopo la fine dell’Unione Sovietica. È un ambito il quale certamente andrebbe rivalutato, invece di sognare lo sfascio dell’Unione europea per correre, in ordine sparso, alla corte eurasiatica di Putin, del quale non si trascurano le benemerenze anche spirituali.

Aggiornato il 11 luglio 2018 alle ore 16:26