Autonomia differenziata per le regioni del nord: adelante con juicio

martedì 12 febbraio 2019


Venerdì il Consiglio dei ministri dovrà esaminare la richiesta di autonomia rafforzata presentata da tre regioni del Nord: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Queste regioni hanno chiesto l’attivazione dell’iter previsto dall’articolo 116 della Costituzione, secondo cui le regioni coi conti in ordine possono chiedere ulteriori competenze (e le corrispondenti risorse) nelle materie di competenza concorrente con lo Stato, come l’istruzione, la tutela della salute e la politica energetica. Si tratta di un passo avanti nella responsabilizzazione delle comunità locali oppure, come dicono i critici, dell’inizio della “secessione dei ricchi”?

È presto per dirlo: bisogna vedere se e come il Consiglio dei ministri risponderà alla richiesta e in quale modo saranno identificati i maggiori poteri da assegnare alle regioni. I punti chiave sono tre. In primo luogo, il rapporto tra l’autonomia nell’organizzazione dei servizi (e quindi nell’allocazione della spesa) e la potestà del prelievo. Se alle regioni verrà assegnata una maggiore compartecipazione ai tributi nazionali, il rischio è quello di veder fiorire inefficienze e sprechi: infatti, i governi regionali avranno ogni incentivo a spendere, mentre non dovranno rispondere agli elettori delle risorse prelevate. Al contrario, se l’autonomia legherà la maggiore flessibilità nella spesa a un analogo potere di tassare, le regioni saranno responsabilizzate e gli elettori potranno consapevolmente decidere se vogliono più spesa e più tasse, oppure l’opposto. Il secondo tema è relativo al rapporto tra le regioni e l’Europa: a leggere la propaganda dei fautori dell’autonoma su molti temi, per esempio la direttiva Bolkestein o gli aiuti alle imprese e le banche del territorio, sembra quasi che vi sia una sorta di retropensiero. È come se la maggiore autonomia fosse vissuta anche come un lasciapassare per ripristinare politiche invasive e di contrasto al mercato interno. È bene chiarire fin da subito che non solo questo non sarà possibile – perché le regioni dovranno rispettare l’ordine costituzionale e i trattati internazionali – ma che sarebbe anche dannoso. Le maggiori regioni del Nord devono la propria competitività proprio al fatto che le imprese, specie quelle manifatturiere, sono state esposte alla concorrenza internazionale. Proteggerle non le renderebbe più forti, ma più assistite.

L’ultimo punto riguarda la coerenza tra obiettivi politici e amministrazione effettiva. La regione che più di tutte ha sfruttato i margini di autonomia concessi dal Titolo V della Costituzione è la Lombardia, che in tal modo si è dotata di un sistema sanitario originale, efficace ed efficiente. Il modello lombardo si regge sulla competizione tra pubblico e privato: gli ospedali sono remunerati allo stesso modo per le prestazioni che offrono, a prescindere da chi ne sia il proprietario. Questo li ha spinti a specializzarsi e attirare i “clienti”, cioè i pazienti, migliorando la qualità del servizio. Adesso la Regione sembra volere stravolgere questo modello, assegnando agli ospedali privati funzioni residuali rispetto a quelli pubblici, e passando quindi da un ordine competitivo – nel quale sono i pazienti a scegliere dove farsi a curare – a un ordine gerarchico, nel quale spetta alla politica compiere tale scelta. Che senso ha chiedere più autonomia, se poi si vuole distruggere un modello istituzionale originale e ben funzionante per diventare come tutti gli altri?


di Istituto Bruno Leoni