La giustizia archeologica

Leggo articoli e ritagli di articoli di giornale, cronache della giustizia. Sempre all’inseguimento di un fantastico nuovo orizzonte di ragionevolezza e di serietà.

Leggo e non mi lascio andare a gesti di stupore e di rabbia, perché, alla mia età, so bene che occorre fare l’abitudine ed all’abitudine connettere il ruolo di sopportare l’insopportabile. Ma talvolta torno ancora, come in un tempo oramai lontano, a rimproverarmi delle reazioni che non ho o che non sono quelle che dovrei avere. Che, poi dovrebbero essere il finimondo.

Leggo ora che è stata “riaperta” l’indagine giudiziaria per l’omicidio Scopelliti. A voi questo nome ricorderà solo quello della compagna di Enzo Tortora. Ma il “caso Scopelliti” fu quello di un “omicidio eccellente”, di un Procuratore di Reggio Calabria, che così si chiamava, sul quale si imbastirono tesi e controtesi, “rivelazioni” ed ipotesi, sospetti ed indizi. Bene, direte. E lo direi anch’io se non sapessi quel che significano certe “riaperture di indagine”. E soprattutto se non sapessi di quanti decenni è vecchio quel “caso”. E le indagini e le baggianate che ne furono parte non trascurabili.

Un caso che, a non avere eccessivi timori di dover esser chiamati a rispondere avanti alla stampa “perbenista” e leccapiedi e, magari, più concretamente avanti ad una inquieta Procura del reato, che so, di “favoreggiamento mediante diffusione di perplessità” sarebbe d’obbligo definire di “archeologia giudiziaria”.

L’archeologia giudiziaria non fa parte delle materie delle facoltà di Giurisprudenza e nemmeno di quella di Lettere e Storia. Ma l’archeologia giudiziaria è la grande passione di una quantità di magistrati. E non solo di magistrati, se sul caso Moro, per il quale sono intervenute da anni ed anni molte condanne all’ergastolo (anche se un ergastolo, si direbbe, non “a vita”) è stata istituita non so se la terza o la quarta Commissione parlamentare d’indagine. La soddisfazione di questa passione dei magistrati è assicurata dal fatto che per i reati punibili con la pena all’ergastolo non è prevista la prescrizione. Sono sempre “freschi”.

E, poiché per l’individuazione della pena da prendere in considerazione per determinare o meno il decorso del tempo necessario alla prescrizione si deve tener conto delle eventuali attenuanti (che all’ergastolo sostituirebbero 30 anni o anche meno di reclusione) facendo così scattare la prescrizione a conclusione del processo, per lo “spettro” (tale considerato effettivamente non solo da Davigo) della prescrizione, il decorso di decenni dal fatto diventa una sorta di aggravante o di “divieto di attenuanti”. “Non possono essere concesse le attenuanti, malgrado l’evidenza di certe indiscutibili circostanze perché altrimenti scatta la prescrizione”. Questo è esattamente il contrario di ciò che dispone la legge. Ma, anche se non lo confessano, molti magistrati la pensano così. La prima volta che, giovane avvocato cassazionista per esame, sentii il Procuratore generale (ero, mi pare, avanti alla IV Sezione della Corte, purtroppo non ricordo il nome di cotanto giurista) richiamare esplicitamente e candidamente la Corte a non lasciarsi impressionare dall’evidenza della sussistenza di una o più attenuanti “perché altrimenti si cade nella prescrizione”, ci mancò poco che mi beccassi un’incriminazione per la risposta che gli diedi. Ma erano altri tempi. Oggi quel troppo sincero magistrato non avrebbe inteso minimamente la necessità di ricordare alla Corte quella “evidente necessità”. La Cassazione sa il fatto suo.

Niente attenuanti, quale che ne sia, nei fatti, la sussistenza. Attenuanti anzi, addirittura impunità e plauso, ai P.M. che, dopo mezzo secolo “riaprono le indagini”. Mi limito a dire “mezzo secolo” (il che non è davvero poco) perché se si possono (si fa per dire) ignorare (per non “cadere nella prescrizione”) le attenuanti e si potrebbe magari, come vorrebbe Davigo e non solo lui, abolire la prescrizione, non si può abolire la “morte del reo” né ipotizzare che essa arrivi con ritardo di secoli. Né si può decentemente far finta di dimenticarlo. Altrimenti qualche P.M. di Roma riaprirebbe, cioè aprirebbe le indagini per l’assassinio di Giulio Cesare, e per altri episodi noti e, soprattutto, ignoti della storia.

Perché l’odio per quell’insopportabile fastidio della prescrizione e la tendenza a lasciarsi andare ad una disinvolta “archeologia giudiziaria”, è fenomeno che si appaia al grande amore per le “dietrologie”. Così le indagini si riaprono non solo per trovare il colpevole che per decenni è rimasto ignoto, ma anche (ed, anzi, soprattutto), per trovare nuovi colpevoli, mandanti, complici “che ci sono dietro”.

C’è un’altra caratteristica dell’archeologia giudiziaria. Se le “prove” che “impongono” la riapertura del caso sono assai spesso impensabili e nuovi sono i nomi di pentiti (che, magari dopo anni dal fatto, dal loro arresto e dal loro “pentimento” si illuminano di nuova luce della memoria) i nuovi indiziati appartengono ad una ristretta categoria, quella dei “designati” colpevoli. Sono gli stessi, per lo più, che si profilano nelle dietrologie (di qui le connessioni dei fenomeni). E sono pure entità, organizzazioni segretamente criminali (la Cia, i Servizi segreti deviati, la Massoneria per lo più deviata).

Poiché pare che la durata media prevedibile della vita umana si allunghi notevolmente, ne deriverà un aumento dei casi che una buona dose di archeologia giudiziaria potrà resuscitare. Se da ciò qualche ingenuo straniero (un Italiano è impossibile che non sappia come stanno le cose) ne volesse dedurre che evidentemente i magistrati italiani non hanno proprio niente da fare e così debbono operare per trastullarsi, non sarebbe un grande errore, anche se, invece tutti quanti giurano di essere sopraffatti dal gran lavoro. Ci sono parti lese di gravissimi reati (quali, ad esempio, gli stupri) che debbono attendere mesi per essere sentite dai P.M..

L’archeologia è cosa diversa dalla banale cronaca. Ha sempre la precedenza.

Aggiornato il 21 marzo 2019 alle ore 12:40