L’Europa senza identità

“Cittadini d’Europa”? Senza una definizione esaustiva e condivisa di “identità” comune all’interno dell’attuale Unione europea (Ue, dai confini fluidi e indefiniti grazie alle sue pratiche poco ragionate di “allargamento” dogmatico all’Est come all’Ovest), come si fa in teoria a battersi e sacrificare la propria vita per difenderne i valori sacri e irrinunciabili? Perché una cosa è certa: il termine “patriota” implica l’esistenza di una Nazione comune, di cui si condivide la storia, le tradizioni e l’idea di libertà così come le hanno storicamente forgiate le generazioni che sono vissute sul suo suolo. E qui insorge il primo fattore di anonimia per l’assenza di un territorio e di una lingua comune, espulsi dai sacri testi dei Trattati europei. Il primo, è costantemente aggirato e sostituito dal termine neutro e a-sentimentale di “Area”, con cui si indica una giustapposizione non di rado interdipendente tra sfere funzionali alle quali corrispondono differenti tipologie di integrazione, coincidenti con aree segmentate e geometricamente variabili. Alcuni esempi: il mercato interno (a 27 Paesi, dopo la Brexit); la Zona Euro a 19 membri; l’Area Schengen cui aderiscono 22 Stati più altri quattro associati (Islanda; Liechtenstein, Norvegia, Svizzera). Questa circonvoluzione crea un problema complesso di norme legali e soprattutto di “leggibilità”, che a sua volta pone il problema della comune legittimazione politica da parte di mezzo miliardo di europei.

Poiché la Nazione rappresenta un vitale concetto strutturale e strutturante nell’immaginario politico, occorre individuare sulla sua falsariga quali siano i pilastri valoriali fondamentali dell’essere “europeo”. Due sono i migliori candidati in questa ricerca di unità: la secolarizzazione e la libertà religiosa, anche se i due concetti si articolano variamente all’interno dei singoli ordinamenti degli Stati membri e solo la Francia ha incluso nella sua Costituzione la prima. Montesquieu diceva che l’Europa era una “Nazione composta da una pluralità di Stati”. E anche oggi continua a esistere una insopprimibile dualità tra l’esistenza di una cultura comune europea e la compresenza di una frammentazione politica al suo interno. Ragion per cui appare inevitabile assegnare una natura intermedia all’identità europea accettando l’idea che, dal punto di vista economico e umano, l’Europa sia parte di un tutto globalizzato ma resti suddivisa al suo interno in Stati-nazione che conservano le loro identità specifiche. Un’identità quindi che deve ricercare il suo sentiero stretto a metà strada tra il “global” e il “local”, attraverso la tecnica della diluizione e dell’auto-restrizione per evitare in tutti i modi un confronto brutale tra l’interdipendenza mondiale e un cieco, xenofobico e sterile isolamento.

Per quanto riguarda il secondo aspetto dell’assenza di una lingua comune, Timothy Garton Ash osserva che “non c’è Bruxelles al centro del problema democratico in Europa, ma la questione di Babele!”. Secondo Ash il deficit di identità si risolve adottando una strategia finalizzata a dotare i suoi cittadini di solidi punti di riferimento nel tempo e nello spazio, dando il massimo risalto all’insegnamento della Storia europea. Ma questo non significa “rimpiazzare la narrativa nazionale, che rimane vitale nell’educazione delle giovani generazioni”, bensì complementandola con un’altra a carattere esclusivo europeo che fornisca alla sua gioventù l’insegnamento di come ogni fenomeno storico nazionale sia da collegare in primo luogo all’esistenza stessa dell’Europa.

“Gli europei debbono poter apprendere i luoghi condivisi della memoria comune e le gesta degli eroi, senza mai tacere sulle questioni che hanno stravolto la convivenza continentale e sui crimini commessi in passato, perché non si costruisce nulla di buono sulla menzogna. Solo lavorando sulla base della memoria condivisa dei nostri peccati potrà emergere una comune volontà per costruire un futuro migliore”.

Sarebbe il caso di pensarci su.

Aggiornato il 15 luglio 2019 alle ore 11:14