Ha ancora un senso la diaspora liberale?

Si discute molto, e da molto tempo, su quale debba essere la collocazione politica dei liberali. La maggior parte di coloro che si ritengono tali tende a collocarsi sul centrodestra dello scenario politico, ma ce n’è un congruo numero che si colloca invece sul centrosinistra. L’unica conseguenza certa che emerge da questa constatazione è che la loro divisione li ha consegnati, in un contesto che è da tempo sempre più fluido e precario, all’invisibilità politica.

Tuttavia, questo dimostra proprio che un luogo politico dei liberali esiste, e che questo luogo è quel centro intorno a cui spontaneamente gravitano. Non si tratta di un luogo casuale: in ogni paese liberaldemocratico i liberali si collocano in prossimità del centro semplicemente perché chiunque si consideri democratico non può non ritenersi liberale. In altri termini, trattandosi di una condizione essenziale, essa è anche “centrale”. Senza liberalismo, infatti, non vi sarebbe la liberaldemocrazia, e senza la liberaldemocrazia non può esservi democrazia, ma solo dittature, di minoranze o maggioranze. L’essere autenticamente liberali, dunque, costituisce una premessa indispensabile per non essere tentati da forme di autoritarismo e per essere impermeabili a ogni suggestione totalitaria.

Certo, si dirà, questo non costituisce tuttavia una condizione sufficiente per far parte tutti di uno stesso schieramento politico, dato che c’è modo e modo di essere liberali. Ma nelle attuali circostanze storiche, in cui diversi tipi di populismo rischiano di produrre effetti preoccupanti sugli equilibri politici europei e mondiali, sarebbe forse opportuno che i liberali cercassero di porre fine alla loro diaspora. Questa è essenzialmente alimentata dal fatto che mentre molti liberali si considerano anche liberisti, altri ritengono utile che, almeno in certe circostanze, lo Stato possa intervenire nell’economia per favorire una più equa ridistribuzione del reddito complessivo. Questo non solo per ragioni etiche, ma anche perché una più equa distribuzione della ricchezza può favorire, specie in tempi di prolungata stagnazione o recessione, la crescita d’indicatori economici fondamentali, come la domanda interna, l’occupazione e gli investimenti.

Storicamente, negli ultimi due secoli, entrambi gli schieramenti dell’area liberale possono annoverare tra le loro fila illustri economisti: se ve ne sono tra i liberisti, a iniziare da Smith e Ricardo fino a Von Mises e Von Hayek, ve ne sono stati anche altri, come John Stuart Mill, Keynes e Galbraith, che non sono stati insensibili alle ragioni che possono consigliare una più equa distribuzione del reddito complessivo.

Per comprendere meglio i motivi per i quali una divisione del campo liberale non è oggi opportuna, e anzi è controproducente per difendere e valorizzare i principi fondamentale del liberalismo, possono essere utili due considerazioni: la prima concerne, come si è accennato, la quasi totale irrilevanza cui i liberali, aderendo a schieramenti opposti, si sono condannati in Italia da circa un secolo; mentre la seconda, più teorica, riguarda l’inopportunità di dividersi su questioni che non sono fondamentali. Per procedere a un esame di questo secondo aspetto, e anche per individuare meglio lo spazio politico che oggi i liberali potrebbero occupare in Europa e in Italia, può risultare utile un esame sintetico sia dei rapporti che il liberalsocialismo ha avuto col pensiero liberale, sia dei diversi modi di concepire il liberalismo, quali furono in Italia quello di Benedetto Croce e quello d’Einaudi.

Riguardo al primo aspetto, Bobbio riassume in maniera efficace il punto della discordia tra il liberalsocialismo, in particolare nella concezione di Guido Calogero, e il liberalismo di Croce: “sin dal 1928 – scrive Bobbio – in un saggio intitolato per l’appunto Liberalismo e liberismo Croce chiarì il concetto che, mentre il liberalismo è un ideale etico, il liberismo è un principio economico che, convertito arbitrariamente in ideale etico, si trasforma nella morale utilitaria. Perciò non ci si deve preoccupare se un provvedimento sia più o meno conforme ai principi del liberismo, ma se sia più o meno liberale, se cioè contribuisca ad accrescere la libertà; e non è affatto escluso che in determinate circostanze sia più energico promotore di libertà un provvedimento economico ispirato alla dottrina economica (non filosofica) socialista. Proprietà individuale e proprietà collettiva non sono beni in sé, ma secundum quid, da valutare in relazione al contributo che possono dare all’accrescimento dell’unico bene in sé, che è la libertà”.

Per Croce v’è un solo valore morale assoluto, ed è quello della libertà, che il liberalismo tutela e promuove. Il liberismo economico e il comunismo non sono invece che diverse strategie economiche che devono essere valutate in base a quanto e a come riescono a difendere e rafforzare un tale valore. Il principio del liberalismo “è etico ed assoluto, perché coincide col principio stesso morale, la cui formula più adeguata è quella della sempre maggiore elevazione della vita, e pertanto della libertà senza cui non è concepibile elevazione né attività. Al liberismo come al comunismo il liberalismo dice: Accetterò o respingerò le vostre singole e particolari proposte secondo che esse, nelle condizioni date di tempo e di luogo, promuovano o deprimano l’umana creatività, la libertà. Con ciò quelle proposte stesse, ragionate diversamente, vengono redente e convertite in provvedimenti liberali”.

Le finalità pratiche ed economiche non rientrano per Croce nel campo della morale, che ha una dimensione universale e non concerne motivazioni e interessi particolari, di individui o classi sociali, né si propone come scopo quello di fornire un metodo efficace per rendere felici gli esseri umani. Il liberismo, così come, in un modo opposto, il comunismo hanno di mira proprio quest’obiettivo: individuare il modello di società ed economia che possa incrementare la felicità individuale e/o collettiva. Ma un tale obiettivo costituisce per Croce una sorta di fantasia consolatrice, una velleità moralistica: “tolta di mezzo quella diade di disparati e ripugnati concetti, rimane dunque, unico principio la libertà, che ha in sé la virtù, e con esse il dovere, di proporsi e risolvere i problemi morali che sorgono sempre nuovi nel corso della storia, tutti i problemi, quali che essi siano: salvo, beninteso, quell’unico del rendere gli uomini felici e beati, che non è un problema ma una fisima, e si può lasciare in pastura ai discettanti sulla giustizia da introdurre nel mondo e sull’uguaglianza a cui ridurlo per farlo star buono”.

Queste posizioni di Croce non erano però condivise da Luigi Einaudi, che concepiva la dottrina liberale in modo assai più coerente con la tradizione europea e, in particolare, con quella anglosassone. La tesi di Einaudi ruota intorno al seguente punto fondamentale: “l’idea della libertà vive, sì, indipendente da quella norma pratica contingente che si chiamò liberismo economico; ma non si attua, non informa di sé la vita di molti e dei più se non quando gli uomini, per la stessa ragione per cui vollero essere moralmente liberi, siano riusciti a creare tipi di organizzazione economicamente adatti a quella vita libera”.

In altri termini, la visione che Einaudi aveva dalla società liberale integrava quella del Croce, pur senza contraddirla nella sostanza, su un punto fondamentale: non tutte le società politiche erano in condizione di tutelare allo stesso modo quel valore supremo della libertà che Croce poneva al centro della sua visione politica e della Storia. Per esempio, il comunismo prospettato da Marx era da ritenersi decisamente incompatibile con una società liberale, mentre non lo erano altri tipi di socialismo, come ad esempio quello utopista di Owen, e nemmeno il comunismo, sempre utopista, di Cabet. In maniera ancora più schematica, per Einaudi le concezioni utopiste del socialismo, così come quelle liberalsocialiste o socialdemocratiche, sono compatibili con uno Stato liberale, mentre non lo sono quelle, come il comunismo di Marx, che si propongano di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione.

La distinzione tra liberalismo politico e liberismo economico proposta da Croce e spesso adottata nell’Europa continentale non è condivisa, oltre che da Einaudi, anche da altri liberali e liberisti o neo liberisti. Tra questi, in modo particolarmente esplicito, da Von Hayek, secondo il quale una simile distinzione non è valida nella tradizione inglese, dove “i due liberalismi sono inseparabili. Infatti, il principio fondamentale per cui l’intervento coercitivo dell’autorità statale deve limitarsi a imporre il rispetto delle norme generali di mera condotta priva il governo del potere di dirigere e controllare le attività economiche degli individui”.

Ma Von Hayek centra l’attenzione su un aspetto parziale e non decisivo: la sua osservazione può infatti servire a spiegare perché – diversamente da quanto sostiene Croce, ma non Einaudi – l’essere liberali esclude che si possa essere favorevoli ad un sistema economico centralizzato come quello comunista, in quanto il comunismo esercita (ha sempre esercitato, e pare destinato a farlo anche in futuro) un potere coercitivo sugli individui; ma essa non implica che un liberale debba credere nell’efficacia incondizionata dell’azione della mano invisibile, né di un liberoscambismo non regolato.

Il fatto che in tutti i paesi liberaldemocratici vi siano diversi livelli di pressione fiscale può significare solo che vi possono essere strategie di politica economica significativamente diverse, che prevedono e comportano diversi impatti dello Stato nell’economia. Da nessuna parte, in ogni caso, si può trovare il modello liberista applicato in una forma pura, anche perché molti governi che sono favorevoli ad applicare bassi livelli di prelievo fiscale non sono altrettanto favorevoli ad una politica libero-scambista, mentre sia l’uno sia l’altro sono aspetti caratteristici della visione liberista dell’economia.

Del resto, anche il fatto che nel manifesto dell’internazionale liberale, steso ad Oxford nel 1947 con il patrocinio degli stessi Einaudi e Croce, si annoveri tra i diritti fondamentali da tutelare anche la sicurezza dai rischi di malattia, disoccupazione, incapacità e vecchiaia, fa capire quanto i liberali siano tutt’altro che insensibili rispetto all’esigenza di porre ogni cittadino nelle condizioni materiali indispensabili per esercitare ogni altro suo diritto o libertà, con ciò che questo può comportare per ogni Stato anche sotto il profilo dell’impegno economico.

In linea generale, l’errore di Von Hayek è riconducibile alla sua concezione del rapporto tra liberalismo e democrazia. Von Hayek ritiene infatti che per la democrazia il problema centrale sia quello di chi deve dirigere il governo. Il liberismo esige, a suo avviso, “che ogni potere – e quindi anche quello della maggioranza – sia sottoposto a limiti. La democrazia giunge invece a considerare l’opinione della maggioranza come il solo limite ai poteri governativi. Se si pone mente ai rispettivi opposti, la diversità tra i due principi emerge nel modo più chiaro: la democrazia si oppone al governo autoritario, il liberalismo si oppone al totalitarismo”.

Ma non è il liberismo economico a esigere che sia sottoposto a limiti il potere della maggioranza: è appunto il liberalismo politico a esigere questo, dato che si oppone sia a governi di tipo autoritario sia a ogni forma di totalitarismo, mentre sono esistiti ed esistono governi autoritari o totalitari che hanno aderito al libero mercato globale secondo le direttive dell’economia liberista, come, ad esempio, la sedicente Cina comunista dei giorni nostri. In base all’impostazione categoriale di Von Hayek, la democrazia risulterebbe compatibile con la dittatura di una maggioranza, mentre questo vale solo per le democrazie cosiddette illiberali, che non sono affatto democrazie. Il fatto che Von Hayek possa invece considerare democrazia una dittatura di una maggioranza, pur ritenendo che essa possa opporsi a un governo autoritario, rivela che il suo impianto categoriale è implicitamente contraddittorio, e dunque fuorviante: nessuna dittatura della maggioranza può opporsi a un governo autoritario, semplicemente perché qualsiasi dittatura, anche di una maggioranza, è un governo autoritario.

Dunque, in conclusione, Einaudi e la tradizione del pensiero liberale anglosassone hanno ragione, rispetto a Croce, nel ritenere che nessun regime in cui la proprietà dei mezzi di produzione sia stata centralizza possa garantire la tutela delle libertà fondamentali degli individui, e che quindi non possa essere considerato alla stessa stregua delle forme di governo liberaldemocratiche, come invece l’analisi di Croce implicitamente suggerisce; e tuttavia, d’altra parte, Croce ha ragione rispetto a Von Hayek e anche a Einaudi nel ritenere che liberalismo politico e liberismo economico debbano essere mantenuti distinti: se infatti il primo è fondamentale perché possa essere attuato il secondo, può accadere però che notevoli livelli d’iniziativa economica privata trovino spazio anche all’interno di regimi illiberali, o addirittura di vere e proprie dittature. Nei regimi fascista e nazista, per esempio, la proprietà privata dei mezzi di produzione non solo era ammessa, ma garantiva anche notevoli profitti privati, anche maggiori di quanto non fossero possibili all’interno di alcuni paesi democratici nella stessa epoca.

Ora, proprio questa circostanza può essere ancor meglio compresa e spiegata se si tiene conto del rapporto che intercorre tra liberalismo e socialismo liberale. Mentre infatti queste due prospettive politiche sono tra loro compatibili e l’attuazione della seconda implica sempre il rispetto dei fondamentali della prima, alcuni aspetti caratterizzanti del liberismo economico, come ad esempio il liberoscambismo e un livello tendenzialmente basso di prelievo fiscale, sono di fatto risultati compatibili con regimi illiberali, Stati autoritari e veri e propri regimi totalitari.

Come si è accennato, la differenza principale tra la prospettiva liberale e quella liberalsocialista consiste nel fatto che quest’ultima si preoccupa di poter garantire ad ogni cittadino quelle condizioni materiali di sussistenza che possano permettergli di godere appieno delle libertà e dei diritti previsti dalla dottrina liberale. Per Carlo Rosselli, uno dei fondatori del liberalsocialismo, non solo liberalismo e socialismo liberale sono compatibili, ma il liberalismo non può che realizzarsi nel più ampio contesto della difesa dei diritti dei lavoratori, e questa in quello di uno Stato che continui a fondarsi sui principi liberali. “Per questo – scrive Bobbio riassumendo il suo pensiero – il socialismo deve tendere a farsi liberale e il liberalismo a sostanziarsi di lotta proletaria. Non si può essere liberali senza aderire attivamente alla causa dei lavoratori; e non si serve efficacemente la causa del lavoro senza fare i conti con la filosofia del mondo moderno, fondata sull’idea di svolgimento per via di contrasti eternamente superatisi, nei quali celasi appunto il succo della posizione liberale”.

Ma il filosofo che forse mette meglio in luce le differenze e la relazione tra la posizione liberalsocialista e quella liberale, specialmente nell’accezione di Croce, è proprio, come si è accennato, Guido Calogero, per il quale la giustizia sociale costituisce un valore morale altrettanto degno di quello della libertà politica, e i due principi non possono essere disgiunti: “a fondamento del liberalsocialismo sta infatti – scrive – il concetto della sostanziale unità e identità della ragione ideale, che sorregge e giustifica tanto il socialismo nella sua esigenza di giustizia quanto il liberalismo nella sua esigenza di libertà”.

Nell’accezione di Calogero, il liberalsocialismo parte dal presupposto che, perché si possano tutelare i diritti previsti dallo Stato liberale per tutti i cittadini, sia anche necessario che gli stessi cittadini siano posti nella condizione economica di poter soddisfare le proprie esigenze primarie, ovvero tutte quelle che possono porli in condizione di esercitare effettivamente tali diritti. Sotto questo profilo, il liberalsocialismo, pur rimanendo una variante del pensiero politico liberale, lo integra con una postilla essenziale, che non venne mai accettata da Croce.

Ora, se per “giustizia sociale” si deve intendere una sostanziale equità delle retribuzioni e delle possibilità economiche dei cittadini, questa non può che scaturire dalla teoria e dal progetto di una società che abolisca la proprietà privata dei mezzi di produzione. Un simile disegno economico-politico potrà comunque, dal punto di vista del Croce, dare buona o cattiva prova di sé nel tutelare e promuovere quella libertà che costituisce l’unico valore assoluto e, esattamente come il “liberismo” economico, rivelarsi più o meno efficace rispetto al conseguimento di tale obiettivo. Si può cioè porre in maniera legittima, dal punto di vista di Croce, il problema di stabilire quale dei due modelli economici sia più idoneo a tutelare e promuovere la “libertà” e considerare entrambi come “strumenti” più o meno adeguati rispetto a tale fine.

Viceversa, come si è visto, per Einaudi si può escludere a priori che il modello egualitario d’ispirazione marxista possa fornire le stesse garanzie di quello liberale, in quanto l’esistenza della proprietà privata dei mezzi di produzione costituisce un presupposto essenziale e irrinunciabile sia per la produzione della ricchezza sufficiente per poter garantire un tenore di vita dignitoso ai cittadini, sia per garantire l’esercizio delle libertà civili e politiche di quegli stessi cittadini.

Ma proprio per questo, se per “giustizia sociale” si intende il porre ciascun cittadino nelle condizioni basilari e necessarie per poter sviluppare le proprie facoltà, le proprie capacità e i propri talenti, allora è chiaro che siamo di fronte a una precondizione per affermare e sviluppare le libertà civili e politiche di tutti. Se un individuo non è posto nelle condizioni di poter avere un reddito sufficiente per vivere, per avere una casa, dei vestiti, del cibo e per ricevere un’istruzione adeguata, se non sarà cioè posto nelle condizioni più idonee per affermarsi come “persona libera”, allora anche la sua libertà sarà destinata a rivelarsi un’idea astratta e un’aspirazione impraticabile. Per questo, secondo Calogero il liberalsocialismo costituisce un’integrazione essenziale del liberalismo, l’unica in condizione di realizzarlo pienamente.

Che non si tratti di una posizione marginale o velleitaria è attestato dal dibattito, ormai secolare, sui livelli d’intervento dello Stato nei sistemi e nelle strategie economiche adottate dai paesi liberaldemocratici. Su quale sia il modello sociale ed economico più efficace per garantire il raggiungimento delle precondizioni minime di cui parla Calogero si sono infatti prodotte numerose ipotesi intermedie, oscillanti tra alcune più prossime alla tradizione liberista ed altre più simili a quelle avanzate dalla tradizione del pensiero socialdemocratico. Si può cioè discutere su quali siano di volta in volta le strategie migliori, sotto il profilo economico e politico, per realizzare un duplice obiettivo: garantire la maggiore efficienza complessiva di un sistema economico, ovvero la sua capacità di produrre ricchezza, e la sua distribuzione migliore, utile, a sua volta, sia per garantire la maggior efficienza economica, sia per garantire a ciascun cittadino l’esercizio concreto delle proprie libertà fondamentali.

A questo riguardo, Calogero sostiene, in risposta a Croce, che la “giustizia sociale” costituisce un valore non meno assoluto di quello della “libertà” di ognuno, dato che la sua realizzazione costituisce, almeno in una certa misura irrinunciabile, una precondizione per poter consentire a tutti di esercitare concretamente quelle libertà civili e politiche che gli sono formalmente garantite. Non a caso, in questa seconda accezione, non solo la “giustizia sociale”, intesa come una più equa distribuzione della ricchezza, non era ritenuta da Einaudi necessariamente inefficiente sotto il profilo economico complessivo, ma non fu considerata tale nemmeno da parte di molti altri liberali durante gli ultimi due secoli, da John Stuart Mill a Keynes.

La posizione di Calogero – e più in generale quella dei socialisti liberali, per i quali un livello accettabile di “giustizia” distributiva assume un’importanza non inferiore a quella attribuibile alla “libertà” – integra dunque e completa la posizione liberale. Anche qualora si volesse considerare la prima solo come un mezzo necessario per rendere effettiva ed operante la seconda, l’ideale della “giustizia sociale” verrebbe comunque ad assumere un rilievo morale e politico non inferiore a quello del fine principale che consentirebbe di salvaguardare e promuovere.

In aggiunta a queste ragioni ideali, vi è però un altro aspetto, non meno fondamentale: quello per cui il livello complessivo della domanda interna, dell’occupazione e degli investimenti può essere depresso da una distribuzione eccessivamente iniqua della ricchezza, e ciò anche a prescindere dalle evidenti controindicazioni sociali e politiche. Il fatto che vari tipi di governo si siano affannati, anche negli ultimi tempi, a dichiarare di voler rimettere dei soldi nelle tasche dei cittadini pone in evidenza che la questione è avvertita da tutti come cruciale. Certo, si tratta di stabilire quale sia il modo migliore per conseguire un simile obiettivo, e qui le strategie e le ricette si differenziano, ma poiché si differenziano e si sono sempre differenziate secondo modulazioni graduali, poiché cioè vi sono sempre state e ancora tutt’oggi vi sono molteplici gradazioni circa l’opportunità di raggiungere quest’obiettivo attraverso una maggiore pressione fiscale piuttosto che attraverso una tassazione minore, e poiché tali diverse gradazioni hanno attraversato sia governi di centrodestra che di centrosinistra, non si vede come un fattore essenzialmente quantitativo possa determinare una perentoria scelta di campo politico piuttosto che un’altra.

Questa circostanza conferma in linea generale la tesi di Croce, sebbene in una forma corretta secondo le limitazioni proposte da Einaudi: le strategie di politica economica più efficaci possono essere decise di volta in volta tenendo conto delle situazioni storiche ed economiche concrete, ma in ogni caso i liberali potrebbero affrontarle meglio, e cioè in maniera più coerente con i propri valori e la loro storia, rimanendo uniti intorno ai principi fondamentali del liberalismo piuttosto che facendo perno su quelli del liberismo.

Oggi, come forse mai prima, il liberismo economico risulta infatti essere in una situazione paradossale: da un lato, con la globalizzazione, sembra trionfare in tutto il mondo, dall’altro pare destinato a venir meno ad almeno due suoi requisiti decisivi: il rispetto dei principi del liberalismo politico e il liberoscambismo. Il primo non è rispettato in nessun paese autoritario e non lo è compiutamente in nessuna (cosiddetta impropriamente) democrazia illiberale; l’altro non è rispettato da alcuni paesi liberaldemocratici che lo hanno recentemente rinnegato, come gli Stati Uniti sotto la guida di Trump.

Né il liberalismo né il liberismo godono dunque di buona salute su scala mondiale, ma mentre delle misure protezionistiche non sono di per sé in condizione di mettere a repentaglio, specie se adottate in via provvisoria e reversibile, i principi della liberal–democrazia cui tutto l’occidente fa riferimento ormai da decenni, il fatto che due delle tre principali potenze economiche e politiche del mondo, ovvero la Cina e la Russia, siano Stati autoritari o illiberali dovrebbe invece costituire un campanello d’allarme per indurre tutti i liberaldemocratici a ritrovare la coesione smarrita durante l’ultimo secolo. Il non farlo, mentre l’Europa rischia sempre di più di divenire una prestigiosa colonia di quelle potenze poco o nulla democratiche, il fatto cioè che parti cospicue di alcuni popoli europei e alcuni loro leader sembrino preoccuparsi di più per una perdita parziale di sovranità che per una sostanziale perdita totale, rischia di rivelarsi una scelta miope e nefasta, oltre che per l’intera Europa divisa, per i destini politici di quelli stessi popoli.

Aggiornato il 12 novembre 2019 alle ore 13:53