Come superare il trattato di Dublino?

giovedì 5 dicembre 2019


Certificati i primi dati riguardanti il ricollocamento dei migranti sulla base di quanto concordato tramite il patto di Malta del 23 settembre scorso, c’è comunque da sottolineare che a lungo termine, ed in caso di nuove emergenze riguardanti i flussi migratori, tale patto potrebbe non bastare più. Come molti addetti ai lavori sanno infatti quel patto deriva, considerandolo almeno sotto l’ottica italica, da un contesto di pieno allarme sulla violazione dei principi basilari riguardanti il diritto alla sopravvivenza mentre, contemporaneamente, l’intensità dei flussi migratori diminuiva già almeno da un paio di anni.

Riguardo ai migranti le emergenze di oggi potrebbero essere, anche, altre: c’è ad esempio l’emergenza di tutti coloro che una volta registrati dalle autorità italiane ed aver chiesto asilo in altri Stati dell’Unione europea (prima del patto di Malta) potrebbero, per via della regola del primo approdo essere costretti a tornare in Italia in quanto Paese di competenza. Ma la revisione del trattato di Dublino va fatta comunque. Il patto di Malta, infatti, è comunque strutturato all’interno dei canoni di tale trattato, il quale si fonda ancora, come concezione, su di un’idea di Europa legata, più che agli europei, alle particolarità dei loro singoli Stati. Un Europa, quindi, in cui i rapporti bilaterali tra Stati assumono importanza maggiore rispetto a quella della risoluzione di un problema che deve essere identificabile come comunitario. Il principio del primo approdo, infatti, dimentica un fatto essenziale: che si tratti di Grecia, Italia, Spagna chi mette piede su tale suolo mette piede su quello stesso suolo europeo che noi cittadini europei calpestiamo in ogni istante della nostra esistenza. Se è vero che da un lato il trattato di Dublino ha permesso una maggiore e più efficace comunicazione tra Stati, tramite anche l’utilizzo del database comune, è altrettanto vero che tale strumento, più che essere un principio, rimane pur sempre solo uno strumento consultivo. In altre parole si potrebbe affermare il trattato di Dublino come ancorato su quella che potrebbe definirsi come l’esigenza prioritaria del dialogo all’interno di una comunità transnazionale ancora in costruzione. È constatabile, quindi, quanto le comunità europee, oggi spesso arroccate sui propri nazionalismi, siano ancora troppo concentrate sull’imparare a parlarsi più che compiere quel salto di qualità identificabile tramite l’imparare ad agire insieme.

Quella volontarietà degli Stati, che oggi è ancora considerabile un piccolo fattore di positività in quanto indice di aumentata cooperazione e, spero, di una presa di coscienza che il problema migranti sia da trattare come problema comunitario, è comunque una volontarietà precaria e vincolata ad un patto siglato sui presupposti di un trattato inadatto a gestire in maniera effettivamente integrata a livello europeo la questione migranti. Se abbiamo necessità di un paradigma attivo, tale paradigma sarebbe da considerare opposto a quello della esclusiva collaborazione tra stati comunitari (siano essi volontari o colpiti da emergenza). Un paradigma in cui l’Unione europea più che essere presente in maniera esclusivamente consultiva possa assumere una funzione gestionale attiva.

In tal senso sarebbe persino più utile, infatti, una struttura transnazionale e comunitaria con presenza capillare sul suolo europeo che gestisca il diritto alla protezione internazionale a livello comunitario, sulla base di una normativa adottata in maniera comune dagli Stati dell’Unione europea (e da chi volesse aderire ad un protocollo d’intesa comune); e che tenga conto, in funzione di una presa in carico “comunitaria”, non solo del dato emergenziale, ne esclusivamente della solidarietà volontaristica sul diritto di asilo che gli Stati appartenenti ad essa possono talvolta manifestare, ma di criteri di valutazione per una integrazione potenzialmente efficace del migrante nel territorio dello Stato che successivamente ad essa dovrebbe risultare competente. Superando le quote “numeriche” ed il metodo erroneo del “primo approdo”; qualsiasi Stato europeo assumerebbe, quindi, una quota di responsabilità nel permettere il diritto alla protezione internazionale affermando con tale onere la piena applicazione a livello europeo della convenzione di Ginevra e del protocollo di New York.

Immaginare una struttura capillare comunitaria è tanto realistico quanto non lo è, invece, immaginare la fine dei flussi migratori verso l’Europa a prescindere da quali siano le rotte seguite. Il futuro che si preannuncia dinanzi all’enormità dei problemi globali non fa prevedere la cessazione delle cause delle migrazioni di massa. Tutt’altro; abbiamo dinanzi troppe guerre, troppe carestie, troppi regimi che violano diritti dell’uomo per non ipotizzare nuovi o maggiori flussi in futuro. Se l’intenzione dell’Unione europea è sostenere il proprio sviluppo con più forza, anche strutturale, ed affrontare la questione anche con il pieno controllo sul rispetto dei diritti dell’essere umano, forse un’organizzazione adatta alle sfide del futuro si rende necessaria e la revisione del trattato di Dublino ne rappresenta una possibilità.


di Pasquale De Salve