Consulta, arriva il no al referendum della Lega

Ci sono volute oltre sei ore fitte di discussione e di confronto serrato. E nonostante ciò alla fine la decisione di bocciare il referendum elettorale voluto dalla Lega non ha convinto tutti i 15 giudici costituzionali. Secondo indiscrezioni la sentenza che ha spento le speranze del partito di Matteo Salvini e degli otto Consigli regionali a guida centrodestra - che avevano promosso il referendum per trasformare, con l’abrogazione delle norme sulla assegnazione proporzionale dei seggi, il Rosatellum in un maggioritario a collegi uninominali - è stata presa a maggioranza.

Con che numeri è difficile dirlo, visto che le votazioni dei giudici così come le discussioni nella camera di consiglio sono coperte dal segreto. Quello che filtra è che si sarebbe comunque trattato di una maggioranza solida e ampia. Nulla a che vedere dunque con le voci che si erano succedute nelle lunghe ore che hanno preceduto la decisione che segnalavano una spaccatura importante, con 8 giudici certi dell’inammissibilità del referendum e altri sette meno o addirittura per nulla convinti e dunque pronti ad aprire le porte alla consultazione referendaria.

Per capire sino in fondo le ragioni alla base della decisione della Corte bisognerà attendere il deposito della sentenza, che arriverà entro il 10 febbraio. Quel che è certo già da ora è che la Consulta ha ritenuto inammissibile il quesito perché “eccessivamente manipolativo” nella parte che riguarda la delega al governo, che secondo i promotori del referendum avrebbe consentito “l’autoapplicatività della ‘normativa di risulta’“, come spiega il comunicato della Corte. La Consulta ha sempre ritenuto inammissibile il referendum sulle leggi elettorali, quando si determina un vuoto tale da richiedere una nuova normativa. E lo ha fatto in nome del principio che occorre garantire la costante operatività del Parlamento. In questo caso sarebbe stato necessario ridisegnare i collegi elettorali uninominali. I promotori del referendum ritenevano che si potesse utilizzare l’articolo 3 della legge elettorale vigente che attribuisce al governo una delega per la ridefinizione dei collegi, nel caso in cui - come effettivamente avvenuto - si riduca il numero dei parlamentari. Una strada che invece la Corte ha ritenuto impercorribile. Sul tavolo della Consulta non c’era solo l’opzione secca tra il sì al referendum e la bocciatura del quesito. Ma anche una terza via: sospendere il giudizio sull’ammissibilità del quesito referendario per intraprendere la via della “autorimessione”, facendo propri i dubbi di costituzionalità avanzati dalle parti che si erano costituite in giudizio. Gli otto Consigli regionali avevano acceso il faro soprattutto sulla legge sul referendum, che consente al capo dello Stato di ritardare solo di 60 giorni l’entrata in vigore del referendum e non sino ad una nuova normativa necessaria per colmare i vuoti e cioè in questo caso ridisegnare i collegi.

Le associazioni contro il referendum (Attuare la Costituzione e il Coordinamento per la democrazia costituzionale) rappresentate dall’avvocato Felice Besostri invece avevano rilevato l’incostituzionalità dell’attuale legge elettorale. Se fosse passata questa opzione la Corte avrebbe sospeso il giudizio sul referendum e avanzato davanti a se stessa la questione di costituzionalità di queste norme. Ma si sarebbe trattato forse di un terreno troppo scivoloso, dove era più difficile trovare una maggioranza solida.

La decisione della Corte costituzionale “non entra a gamba tesa sulla legge elettorale che sarebbe risultata, ma si ferma su un aspetto ‘laterale’, quello dell’eccessiva manipolatività del quesito nella parte che riguarda la delega al Governo, punto sul quale probabilmente c’è stato un maggiore consenso all’interno nel collegio”.

Così il presidente emerito della Consulta, Cesare Mirabelli, commenta con l’Ansa la sentenza della Suprema Corte che ha dichiarato inammissibile il referendum sulla legge elettorale sostenuto dalla Lega. Il punto in questione, rileva Mirabelli, “non riguarda direttamente la legge elettorale, ma la delega al Governo per consentire di applicare immediatamente l’eventuale legge che sarebbe rimasta in piedi in caso di esito favorevole del referendum”.

Sui possibili effetti di quella legge, sottolinea, “c’è solo un accenno che si può leggere in filigrana, quando la Corte dice che con l’eliminazione della quota proporzionale il sistema elettorale si sarebbe interamente trasformato in un maggioritario a collegi uninominali. Ma - nota - non ci dice se ciò era consentito o meno; se, in pratica, il referendum fosse effettivamente abrogativo oppure propositivo, cosa, quest’ultima, non prevista dalla nostra Costituzione”.

Il presidente emerito “azzarda” quindi una lettura della dinamica che potrebbe essersi sviluppata tra i 15 giudici del Collegio: “nei casi in cui ci sono più aspetti sul tavolo, viene privilegiato quello che trova il maggiore consenso. ‘Assorbente’ significa che non è necessario affrontare gli altri argomenti che magari erano maggiormente divisivi. Dichiarando che quell’aspetto è ‘assorbente’ viene meno l’esigenza di esaminare gli altri”.

“Ora - prosegue il costituzionalista - la palla ritorna al luogo naturale in cui si esercita la rappresentanza politica, il Parlamento, ed io auspico un dibattito che porti ad una larga intesa sulle regole del gioco. Spesso - conclude - sono state proposte leggi elettorali per trarre vantaggio e danneggiare gli avversari politici ed è capitato che poi il corpo elettorale abbia smentito quelle previsioni”.

Aggiornato il 16 gennaio 2020 alle ore 20:23