Sandro Pertini a trent’anni dalla scomparsa

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L’ascesa di Sandro Pertini (San Giovanni di Stella 25 settembre 1896-Roma 24 febbraio 1990) al Quirinale, comportò una marcata innovatività interpretativa del ruolo presidenziale rispetto al passato, in quanto alla consolidata prassi di una funzione da svolgere in maniera quasi notarile, egli oppose con la sua vivezza temperamentale ed il suo innato carisma comunicativo, un costante dialogo con il popolo, che si sentì così rassicurato e garantito dall’anziano “nonno presidente”. Ciò in un momento storico pericolosamente segnato dal progressivo scollamento tra Paese legale e Paese reale, nel qual momento l’anziano Presidente – più o meno inconsapevolmente – seppe ricucire lo strappo, evitando il rischio che la protesta uscisse dall’alveo della legalità democratica, tracimando nel caos auspicato dagli eversori di ogni tendenza.

Le Istituzioni mantennero la loro credibilità, avendo saputo esprimere dal loro interno un Uomo di quella tempra morale e civile, mentre all’estero, dove malgrado il peso degli anni egli volle recarsi spesso, contribuì a ridare autorevolezza all’immagine dell’Italia che mafia e terrorismo avevano offuscato. Conseguita la laurea in Giurisprudenza, prese parte alla prima guerra mondiale come Sottotenente di complemento, ottenendo in seguito la medaglia d’oro al valor militare. Tornato alla vita civile e conseguita anche la laurea in Scienze politiche e sociali, si impegnò nel socialismo con un ardore quasi missionario, pagandone fino in fondo le conseguenze: il carcere, il confino di polizia, la clandestinità in Francia, nella quale non disdegnò i lavori più umili.

Mentre Pertini stava scontando la condanna inflittagli dal Tribunale speciale per la Difesa dello Stato, la madre inoltrò una domanda di grazia al Duce; ma venutone il diretto interessato a conoscenza, non solo rifiutò sdegnosamente l’invocato atto di clemenza, ma le rimproverò di essere venuta meno alla parola datagli a Regina Coeli e di avere offeso, con quell’istanza, la sua fede politica. Di tale durezza in seguito amaramente si pentì, serbando un affetto struggente per la madre sino all’ultimo respiro. Tornato in libertà dopo l’8 settembre, il 18 ottobre 1943 venne arrestato dalle SS e recluso con Saragat a Regina Coeli, da dove entrambi evasero grazie a Vassalli. Nel 1945 Pertini fu eletto segretario del Partito socialista italiano di unità proletaria e poi deputato all’Assemblea costituente; nel 1948 Senatore e Presidente del gruppo parlamentare del suo partito; dal 1953 al 1976 venne rieletto ininterrottamente Deputato, ricoprendo l’incarico di vicepresidente della Camera (1963) e quindi di presidente della stessa (1968 e 1972).

Quant’altri mai cara gli fu anche l’esperienza di giornalista, che lo portò a dirigere l’Avanti (1946) e Il Lavoro di Genova (1947–1968), nella qual esperienza portò avanti il suo impegno per un socialismo che non fosse appiattito su di una posizione di subalternità verso il comunismo, ma che – per converso – non rompesse la solidarietà di tutte le forze di matrice socialista. La sobria imparzialità con la quale aveva esercitato il mandato al vertice di Montecitorio, l’8 luglio 1978 fece convergere su di lui un consenso quasi unanime per la Presidenza della Repubblica. Al Quirinale non volle socialisti o altra gente di partito, poiché – affermò – “partito vuol dire corrente, camarille, intrigo”, per cui si avvalse di personale senza appartenenze politiche, anche nella sua segreteria particolare. Scelse di vivere sobriamente in un mini appartamento a Fontana di Trevi, accanto alla moglie Carla Voltolina, che non volle peraltro seguirlo al Palazzo.

Fu spontaneamente e non teatralmente semplice in mezzo al popolo, che ne adorava l’immediatezza, la sincerità, l’onestà ed i toni, anche quelli un po’ bruschi. Proverbiali erano i suoi scatti di ira, simili ad un temporale estivo, che esauriva la sua virulenza nello spazio di pochi minuti: era incapace di serbare rancore e sapeva chiedere scusa quando si lasciava trascinare da un’irruenza che mai sottintendeva malanimo od ostilità. Nei messaggi del nuovo inquilino del Quirinale, prevalse una speciale attenzione ai temi dell’occupazione giovanile, del terrorismo e della politica internazionale. In occasione del discorso per il giuramento, espresse la sua fiducia nell’Europa e nel ruolo dell’Italia come portatrice di pace nel mondo: “Si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte per milioni di creature umane che lottano contro la fame – esordì –. Il nostro popolo generoso si è sempre sentito fratello a tutti i popoli della terra”.

In seguito avrebbe meglio precisato il suo pensiero al riguardo, chiarendo che l’unica forma di guerra per lui accettabile era quella in difesa del territorio della Patria, nella qual prospettiva aveva combattuto, egli stesso, da ufficiale durante la Prima Guerra mondiale e da partigiano durante la Seconda. Tra le priorità da affrontare all’interno evidenziate nel suo primo messaggio, indicò la lotta alla disoccupazione, la casa, la promozione della cultura e della ricerca scientifica, aiutando i giovani volenterosi e capaci, ma privi di mezzi. Il valore più prezioso da difendere e consolidare era quello della libertà, per la quale sin da giovane aveva lottato: “se a me, socialista da sempre– precisò al riguardo tra vivissimi e generali applausi – offrissero la più radicale delle riforme sociali a prezzo della libertà, io la rifiuterei, perché la libertà non può mai essere barattata”. Ciò nondimeno – soggiunse– sarebbe stata una ben labile conquista quella di una libertà disancorata da una concreta giustizia sociale: “Non vi può essere vera giustizia sociale senza libertà, come non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale”. Pertini ebbe costantemente caro il contatto con i giovani, non solo nel senso affettivo, ma anche in quello pedagogico, proponendo il proprio vissuto di combattente per la Libertà, come antidoto al qualunquismo valoriale di coloro che proponevano loro” né con le Brigate rosse, né contro le Brigate rosse”.

La giovinezza era, innanzi tutto, una condizione dello spirito, al cui riguardo osservò: “C’è chi nasce vecchio, e chi vive giovane per tutta la sua vita. Io appartengo a questa seconda categoria. Bene, giovani, questo è il primo insegnamento che desidero, dalla mia vita di 60 anni e più di lotta, offrire alla vostra meditazione, senza prevenzione alcuna. Badate, non dimenticate questo: che la libertà è un dono prezioso e inalienabile. Voi dovete battervi per questo, ma restando nel terreno civile della democrazia”. Né le angosce per motivi di studio o di disoccupazione, o causate dalla droga, dovevano costituire un terreno fertile all’inganno del terrorismo. “Se non volete, cari giovani, come io mi auguro, che la vostra vita scorra nuda, grigia, monotona, fate quello che abbiamo fatto noi alla vostra età – concluse, in una sorta di testamento spirituale – date alla vostra vita un’idea, una fede, fate che una fede illumini ogni giorno la vostra giornata, ed allora non vi sarete mai pentiti e sentirete che la vita vale la pena di essere vissuta”.

Nuovamente rivolgendosi ai giovani con una nota di toccante autobiografismo, disse loro:” Non guardate ai miei capelli bianchi: so che non avete bisogno di prediche, ma di onestà, di esempi. Ma non usate violenza, armate il vostro animo di una fede sicura. Ero all’ergastolo a Santo Stefano, in una nuda cella e sentivo lo scorrere del tempo, con la mia giovinezza che sfioriva, e con lei gli anni più belli. Ma nonostante questo, mi sentivo fiero ed orgoglioso, perché quella cella era illuminata dalla luce della mia fede politica. Illuminate così la vostra vita. Il coraggio lo potete dimostrare non con armi della violenza, ma difendendo sempre la vostra fede politica contro tutti e tutto, difendendo la libertà”. Tra gli strumenti più efficaci a prevenire la devianza giovanile e l’attrattiva criminale, andava considerata la scuola, che doveva trasmettere una cultura non in senso meramente nozionistico, bensì come strumento “atto a formare il carattere dell’uomo”, massimamente attraverso gli studi classici.

All’interno del Quirinale, sin dall’inizio del mandato, lo stile sobrio del Presidente non passò inosservato: comprava di tasca propria i biglietti per l’aereo di linea, amava pranzare nelle trattorie “casarecce” nei pressi di piazza Fontana di Trevi, giocava a scopone con gli uomini della scorta, seguiva dal vivo le partite mondiali di calcio, condividendo gli entusiasmi dei tifosi italiani e galvanizzando con la sua presenza i giocatori. Nei rapporti con gli impiegati del Palazzo non volle esserne considerato il capo nel senso gerarchico, bensì il “capo della famiglia del Quirinale”, dall’autista al Segretario generale, agli amatissimi corazzieri: “Mi sono circondato di gente fidata, onesta – diceva sovente – con me al Quirinale non è entrato alcun raccomandato”. Quanto ai suoi poteri “esterni”, ritenne doveroso precisare che–a fronte dei problemi che gravavano sul Paese – non gli era dato intervenire oltre i limiti imposti da una Repubblica di tipo parlamentare e non presidenziale, per cui, concluse: “i miei poteri mi consentono soltanto di consigliare, di esortare, di dare dei suggerimenti, certo sì anche al presidente del Consiglio, ma solo suggerimenti”.

In seguito ribadì – per quanti avessero avuto residui dubbi al riguardo – la sua avversione alla Repubblica presidenziale con un capo dello Stato eletto direttamente dal popolo, in quanto ciò avrebbe potuto prestarsi ad involuzioni di tipo autoritario, a discapito del Parlamento e del Governo. Il problema del terrorismo andava affrontato a livello internazionale, con una sempre più intensa collaborazione tra le polizie dei vari Paesi, tanto più che– disse Pertini durante un’intervista resa alla televisione francese il 24 aprile 1979– un’unica cabina di regia, a suo avviso, operava dall’estero: “Ecco perché–soggiunse– faccio appello affinché le nazioni d’Europa collaborino per sradicare questa mala pianta che è il terrorismo”. Nell’autunno di quell’anno montò la vertenza dei “Controllori del traffico aereo”, miranti ad essere smilitarizzati: la loro astensione dal lavoro, cagionando la sospensione della guida radar degli aerei, avrebbe paralizzato l’intero sistema dei voli nei cieli italiani. Il capo dello Stato intervenne personalmente convocando le parti in causa e tutta la stampa in genere consentì sull’autorevolezza morale dell’anziano Presidente, che aveva fatto prevalere il buon senso, al di sopra dei paralizzanti bizantinismi della politica tradizionale.

Tra i problemi ricorrenti, era prioritario quello della droga, causa della rovina di tanti giovani, ai quali genitori ed educatori dovevano stare vicini soprattutto nei momenti difficili, come in quello della disoccupazione. Quest’ultima costituiva un terreno fertile anche per la manovalanza del terrorismo, che andava combattuto fornendo di mezzi adeguati e di una remunerazione dignitosa le forze dell’ordine, alle quali espresse la riconoscenza sua e del popolo italiano. Nel merito specifico degli stupefacenti, chiarì il suo distinguo tra spacciatori e tossicomani, i quali ultimi non erano colpevoli, ma vittime da assistere con particolare affetto; mentre coloro che li traviavano e li suggestionavano, andavano puniti senza alcuna pietà. Un’altra piaga che minava la solidità della Repubblica era la corruzione, che non doveva contaminare una gioventù nella sua stragrande maggioranza moralmente sana, nella quale il presidente credeva profondamente. In tema di terrorismo ebbe ampia risonanza il discorso rivolto dal capo dello Stato agli operai dell’Italsider di Taranto, nel corso del quale esclamò: “oggi, ancora una volta, la democrazia è minacciata; non dimenticate che, se per dannata ipotesi in Italia dovesse crollare ancora una volta la democrazia, il prezzo più duro lo pagherete voi. Il terrorismo non deve entrare nelle fabbriche, non deve esservi posto per i rappresentanti dei terroristi e se qualcuno vi è, deve essere cacciato via come un nemico dei lavoratori.”.

Durante il consueto periodo di ferie a Selva di Val Gardena, il presidente dovette precipitosamente interromperle per la strage del 3 agosto 1980 alla stazione di Bologna, recandosi a visitare i feriti ed a rendere omaggio ai defunti: la scena che si ripeté con monotona mestizia, fu quella del popolo che, innanzi ad ogni tragedia, distingueva il presidente della Repubblica da tutti gli altri rappresentanti delle Istituzioni. Alle tragedie imputabili all’uomo, la natura aggiunse quella del terremoto che sconvolse l’Irpinia, riproponendo, oltre ai drammi umani ed economici, anche il problema della tempestività degli interventi in favore delle popolazioni colpite. La gente disperata si rivolse a lui come ad un Santo taumaturgo, sperando che potesse fare qualcosa per contenere le conseguenze delle forze della natura scatenatasi con tanta furia: “Pertini, non abbandonarci”, invocavano quanti, dopo aver perso tutto, non avevano smarrito la speranza, riposta nella rassicurante canizie dell’anziano galantuomo, la cui presenza carismatica sembrava già in grado di lenire dolori altrimenti disperati. La prima metà del 1981 ebbe come fatti di maggiore risonanza l’attentato al Santo Padre (13 maggio) e la scoperta degli elenchi degli appartenenti alla Loggia massonica P2, compresi alcuni esponenti del governo Forlani, che il 28 giugno dovette rassegnare le dimissioni, in seguito alle quali Pertini nominò per la prima volta a Palazzo Chigi un laico: il repubblicano Spadolini.

Dal campo della politica, secondo il capo dello Stato, andavano allontanati sia gli appartenenti alla citata Loggia, sia i ladri ed i corrotti: “Io sono intransigente, prima di tutto verso me stesso – disse – E dico che la politica deve essere fatta con le mani pulite. Cioè [il politico] non deve compiere atti di disonestà, poiché ne deve rispondere non solo dinanzi alla sua coscienza, ma ne deve rispondere anche di fronte al corpo elettorale”. Al quinto anno del mandato, si evidenziò sempre più nettamente la riluttanza del presidente ad assecondare scioglimenti anticipati delle Camere e Governi di breve durata, poiché la stabilità politica era da lui avvertita come condizione necessaria per affrontare la grave emergenza del Paese, correlata anche alla degenerazione dell’etica pubblica. I partiti in specie, da sempre “lievito insostituibile della democrazia”, dovevano “guidare e non schiacciare la società civile, astenendosi dalla tentazione di occuparla”, usando anche una maggiore moderazione nelle “nomine negli enti economici e culturali, in modo da evitare le brutali divisioni delle spoglie”.L’11 luglio un turbine di gioia sembrò – seppure momentaneamente – spazzare via l’odore acre delle morti di mafia e di terrorismo: l’Italia aveva vinto i Campionati mondiali di calcio svoltisi a Madrid. L’anziano presidente, con l’entusiasmo di un ventenne, si era recato ad assistere alla finale, galvanizzando già con la sua presenza i calciatori della Nazionale, ed a fine partita balzò in piedi esclamando: “italiani, imparate dagli Azzurri a superare le difficoltà!”. Si trattò di una breve parentesi: il 3 settembre fu assassinato dalla mafia il generale Carlo Alberto dalla Chiesa insieme alla giovane moglie, nel segno di una suprema sfida allo Stato.

Nel discorso di fine anno, il presidente registrò le sconfitte subite dal terrorismo in Italia, dove tuttavia esisteva anche la piaga della mafia e della camorra, nell’ambito di un più generale problema del Mezzogiorno – complici il carovita e la disoccupazione più forti che nel resto del Paese – che non doveva portare– tuttavia– a generiche ed offensive criminalizzazioni dei meridionali in quanto tali. Era appena iniziato il nuovo anno, che la mafia uccise il giudice Ciaccio Montalto, a seguito della cui morte il presidente disse : “Così come i terroristi , anche gli uomini della mafia devono sentire pesare l’isolamento morale e politico in cui si trovano oggi e si troveranno sempre in misura crescente per il futuro. Sarà sconfitta anche la mafia che gronda sangue, sarà sconfitta per opera delle Forze dell’ordine, per il coraggio sempre dimostrato in questa tormentata Isola dalla Magistratura, che ha pagato un così alto prezzo di sangue”.

Il 6 luglio 1984 il presidente, ricevendo il Premio europeo della Fondazione Coudenhove-Kalergi, rilevò delle turbolenze (sorprendentemente simili alle attuali) circa la costruzione unitaria: “Crisi energetica – notò – e caduta occupazionale hanno aperto il vaso di Pandora della rincorsa agli egoismi, dell’interpretazione contabile delle clausole comunitarie, della moltiplicazione delle pretese, senza o quasi corrispondenti sacrifici”. Sul piano strettamente economico, innanzi all’esuberanza dei Paesi emergenti, l’Europa vedeva minacciate le produzioni tradizionali per mancanza di una politica comune di ricerca, con il rischio di una “retrocessione storica senza rimedio”. Tuttavia – soggiunse – non bisognava cadere in uno sterile pessimismo, dato che l’Europa era divenuta un urgente imperativo senza alternative, che avrebbe consentito concentrazione, risparmio e riduzione dei costi.

Nell’ultimo messaggio di fine anno, Il capo dello Stato in riferimento alla situazione interna, fece propria l’istanza di giustizia dei parenti delle vittime delle numerose stragi che avevano insanguinato il Paese, in ultimo quella di San Benedetto Val di Sambro, la medesima dove dieci anni prima era stata consumata quella dell’Italicus. Un comune sentire aveva legato durante il mandato l’anziano presidente a Giovani Paolo II: la medesima allergia alle liturgie del cerimoniale, il medesimo carisma comunicativo verso le folle, la stessa fede nella libertà, l’anelito per la pace e la giustizia sociale, l’amore per i giovani e l’impegno per l’affermazione della dignità dell’uomo. Malgrado l’agnosticismo più volte ribadito, Pertini ebbe un rapporto ambivalente col Trascendente, come si intuisce anche dall’osservazione fatta in occasione del viaggio in Egitto: innanzi alla maestosità delle Piramidi e delle Sfingi, si spinse ad affermare che esse rispecchiavano “la soggezione dell’uomo all’Onnipotente, ma anche il dominio e il soffio del suo spirito sulla materia inanimata”. Non era certo l’evocazione del Dio cristiano, ma comunque era palese la credenza in un’Entità sovrannaturale. Persone a lui assai vicine hanno riferito che la sera si addormentava con la foto della madre adorata e con il Rosario che ne aveva ricevuto in dono, sotto il cuscino. Cinque anni dopo la fine del mandato, in punto di morte chiamò il Santo Padre, al quale, tuttavia, Donna Carla non permise di accostarsi al capezzale del moribondo, per cui il Pontefice dovette limitarsi a pregare nel corridoio antistante la camera dove l’illustre infermo era ricoverato. Se il Papa fosse entrato, probabilmente si sarebbe verificata una conversione, che avrebbe suscitato ben più scalpore di quella, già clamorosa, di Renato Guttuso. Alla fine il Santo Padre disse: ‘Ora lui è in pace’, si alzò dalla sedia e se ne andò. Il naturaliter christianus Pertini, oltre al viatico di Papa Giovanni Paolo II per il Paradiso, poté contare sulle preghiere della mamma che lo attendeva nel Cielo.

Aggiornato il 24 febbraio 2020 alle ore 12:38