Interviste immaginarie: Aldo Moro

Ieri, nel sistemare le mie vecchie carte accumulate negli scaffali della mia biblioteca, scritte a macchina quando non era ancora nato il computer, mi è capitata fra le mani una poesia del maggio 1978 sulla strage di via Fani e la morte di Aldo Moro. La inviai a Indro Montanelli chiedendogli di pubblicarla su il Giornale, e lui mi rispose: “L’ho molto apprezzata, ma purtroppo non posso pubblicarla: un quotidiano non ha uno spazio per la poesia. Si abbia la mia più cordiale stretta di mano”. Ho estratto il foglio da quella mole di carte, sono andato a sedermi sulla poltrona reclinabile del mio studio e ho riletto quei versi con l’animo commosso. Dopodiché ho poggiato il foglio sul petto e ho chiuso gli occhi, per rilassarmi. A un certo punto, come mi capita spesso coi grandi personaggi della Storia, si è formata nella mia mente l’immagine di Aldo Moro.

“Signor Presidente!”, ho esclamato dentro di me. “Vorrei farle alcune domande. L’ho incontrata più di una volta nel pomeriggio lungo la strada in cui si affaccia la mia casa mentre si dirigeva sul Lungotevere delle Vittorie, e un giorno mi sono permesso di fermarla e di stringerle la mano. Mi sono sempre chiesto che cosa ci facesse Lei, da solo, senza alcuna scorta, da quelle parti”.

“Venivo a prendere mio figlio, che spesso si recava in casa di un compagno di scuola e si intratteneva a studiare con lui”.

“Ho avuto sue notizie sin dalla fine della guerra da una mia cugina che insieme a Lei aveva frequentato la Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana. Se ben ricordo, stando a quel che mi disse mia cugina, anche lì hanno rovesciato la storia, scrivendo che coloro che la frequentavano ‘evitavano atteggiamenti compiacenti nei confronti del fascismo, rivolgendo l’attenzione su argomenti filosofici, artistici, letterari, storici e religiosi’, e che tale linea costituiva ‘una risposta indiretta all’invadenza di un regime ch’educava i giovani sulla base di valori estranei al pensiero cristiano’”.

“È vero comunque che ci fu uno scontro tra il fascismo e l’Azione cattolica, e la Fuci subì un duro colpo da parte del regime”.

“Ma questo accadde nel 1931. Con la Guerra d’Africa l’atteggiamento di tutti gl’italiani era ben diverso, tanto è vero che nel 1936 persino i comunisti si associarono all’entusiasmo generale inviando una lettera ai ‘fratelli in camicia nera’, nella quale sottoscrivevano il programma fascista del 1919, ‘un programma di libertà’. Tra i firmatari c’erano Palmiro Togliatti, Giuseppe Di Vittorio, Luigi Longo e Leo Valiani. L’anno dopo nei Littoriali a cui partecipò insieme a tanti altri intellettuali che poi diventarono antifascisti, in risposta al tema Sviluppo della personalità umana nel regime fascista, Lei parlò dei giusti e necessari limiti fra autorità e libertà (come diceva Camillo Benso Conte di Cavour, e come aveva già detto Platone), sostenendo che nel fascismo l’autorità lasciava molto spazio alla libertà, tanto è vero che i Premi Bergamo e Cremona, in antitesi fra loro, annoveravano fra i concorrenti e i vincitori anche scrittori e artisti non ‘allineati’, alcuni dei quali erano finanziati e spesso addirittura stipendiati dal regime. L’Eur (l’Esposizione Universale di Roma) vide artisti quali Renato Guttuso e Mario Mafai, per non parlare di quelli affermati a livello internazionale, come Carlo Carrà, Mario Sironi e Massimo Campigli”.

“Eravamo giovani, allora”.

“Anch’io. Non avevo ancora 12 anni e scrissi una poesia per la proclamazione dell’Impero, che mio padre, console della Milizia, fece pervenire al Duce. Ma alla fine della guerra, pur riconoscendo certi errori del fascismo, non ho mai rinnegato il mio passato ‘repubblichino’, né bruciato le poesie e gli altri miei scritti. Molti me li bruciarono invece i partigiani quando, scappata la mia famiglia in Calabria per sottrarsi alla ‘mattanza’ dei rossi, saccheggiarono la nostra abitazione. Lei, invece, nel 1959 al congresso democristiano di Firenze definì il fascismo ‘una dittatura’, la ‘legittimazione della violenza’, ‘il rifiuto della democrazia’. Anche lei non ha salvato nulla di tutto ciò che di buono fece il regime”. 

“Ma io non mi vergogno e non mi sono mai vergognato di essere stato fascista, né me ne pento: la vita è un gioco dialettico, e tanto più lo è la politica. La storia dell’uomo è la storia di Dio. Questo mi è sempre stato chiaro, fin da ragazzo, quando frequentavo la Chiesa. Come tutti i giovani di allora, avevo fermamente creduto nel fascismo, lo ammiravo perché era riuscito a unire gl’Italiani, a farne un popolo vero, dopo gli scontri e le discordie del primo dopoguerra. Amavo la Patria, ero nato per fare il politico. Caduto il Fascismo la politica cambiò, tornarono i partiti. Cosa dovevo fare se quella era la mia passione?”.

“Nei giornali di allora, di cui conservo una cospicua raccolta ereditata da mio padre, ho letto che lei, ‘col giovane occhio turbato da vaga mestizia’, scrisse articoli ‘per una rigenerazione fisiologica del nostro popolo’, mentre Amintore Fanfani, che ‘si affannava a pigiarsi e ad applaudire il Duce, in un saggio intitolato altezzosamente Da soli, preso dagli ‘eroici furori’ della conquista etiopica, irridendo il Negus in fuga, scrisse: ‘I suoi ex sudditi salutano romanamente le armi vittoriose e liberatrici, ora che tra le fumanti rovine di Addis Abeba e di Harrar, devastate dai predoni, due Marescialli d’Italia gettano i germi dell’ordine nuovo, compiendo, dopo quel­lo dell’unità, il più grande fatto della storia d’Ita­lia da quattordici secoli a questa parte”.

“Acqua passata”.

“Già, Lei può ben dirlo, adesso”.

“Non sono io che lo dico. La storia dell’uomo, che, come ho accennato, è la storia di Dio in vesti umane (così diceva Vico), è un gioco dialettico di Dio, tanto più nella Politica. Da lì il mio atteggiamento verso il Partito comunista, che in quel gioco per me era l’antitesi della tesi rappresentata dalla Democrazia cristiana. Potremmo dire, sintetizzando, Destra e Sinistra. Cercavo l’unità, pur nella diversità dei caratteri e degli atteggiamenti dei politici e di tutti gl’Italiani, perché, come diceva un motto del Conciliatore, ‘fra i pareri discordi se chi disputa possiede senno ed onestà balza fuori sempre qualche utile verità’. Mussolini era riuscito a unire e a pacificare gl’Italiani, perché non potevo riuscirci io? Gl’Italiani, nel fondo, sono docili e obbedienti. Questo io sentivo di dover fare, come uomo politico, perché questo era il mio mestiere. Certo, non potevo collocarmi a destra, e nemmeno a sinistra, dunque mi misi al centro, per controllare sia la Destra che la Sinistra. La mia forza era nella religione, che era stata una delle forze unificatrici degli Italiani al tempo del fascismo. Dio, Patria e Famiglia: questi erano i cardini, gli strumenti. In più io in fatto di religione avevo ciò che non aveva Benito Mussolini”.

“Cioè?”.

“Come le ho detto, la mia visione di Dio e della Politica, che ne è la più visibile espressione. Mio padre mi raccontava degli episodi accaduti in Italia dopo la Grande guerra, prima che si affermasse il fascismo, li leggevo nei libri di Storia. Bisognava ricostruire l’unità, che la caduta del fascismo e la guerra avevano spezzato”.

“Quando l’Italia entrò in guerra quale fu il suo atteggiamento?”.

“Favorevole, come quello di tutti gl’italiani”.

“Il 9 gennaio 1959, da ministro della Pubblica Istruzione in carica ormai da quasi due anni, Lei presenziò ai funerali di Giuseppe Bottai, animatore della rivista Il Primato, che nella fatidica seduta del 25 luglio 1943 si oppose a Mussolini e che alla fine della guerra si arruolò volontario nella Legione straniera. In quella occasione i giornali scrissero che lei aveva omaggiato Bottai solo perché suo padre l’aveva conosciuto e ne era stato collaboratore ministeriale”.

“La questione è un po’ complessa. Innanzitutto bisogna tenere presente che Bottai durante gli anni Cinquanta operò come giornalista e intellettuale a supporto del ‘centrismo’ democristiano, sostenendo nel giornale da lui diretto, Abc, che solo un connubio politico fra Dc e Pci rappresentava l’unica possibilità politica per riaprire in qualche modo la strada per un programma economico e sociale di stampo corporativistico. Da lì una dozzina di anni dopo nacque il progetto politico del ‘compromesso storico’, di cui io fui il principale artefice e propugnatore”.

“Comunque Lei, dal dopoguerra sino all’ultimo fiato, è stato, come l’ha definito Carlo Donat-Cattin, ‘un cavallo di razza’, il che vuol dire che, come puledro, era stato allevato molto bene dal fascismo, che come a moltissimi altri diventati antifascisti le aveva insegnato qualcosa di buono, e lo hanno dimostrato i risultati della sua azione politica. Io ho condiviso posso dire tutto ciò che Lei ha fatto dal dopoguerra in poi, e anche su di Lei ho scritto un buon sonetto. Non ho condiviso invece l’atteggiamento dei democristiani durante la sua prigionia nel covo delle Brigate rosse, quale risulta in questo documento: ‘La nostra coscienza c’impone di dire no alla richiesta dei brigatisti: non si tratta di tener fede ad un concetto astratto di ragion di Stato, ma di tutelare le basi che sono a fondamento della nostra convivenza civile. Accettare i contenuti di questo ricatto-ultimatum significherebbe entrare in una spirale a cui la Repubblica democratica non potrebbe più sottrarsi’”.

 

“Con le Brigate rosse non si tratta!”,

proclamavano Camera e Senato.

“Meglio la morte più che la disfatta:

sarebbe un disonore per lo Stato!”.

 

E però sotto sotto, gratta gratta,

con le Brigate rosse hanno brigato

per farti fuori e farla pari e patta,

e questo è stato infatti il risultato.

 

Veramente il più abile campione

della vita politica tu eri:

hai lottato con forza per l’unione

 

degl’Italiani, bianchi, rossi e neri,

sei stato il corifeo della nazione,

uno statista, ma di quelli veri.

 

Quando si dice la verità non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta ad essere coraggiosi” (Aldo Moro).

Aggiornato il 26 marzo 2020 alle ore 16:40