Giovanni Gronchi, il presidente della “svolta a sinistra”

Galleria di Presidenti

Con l’ascesa al Quirinale di Giovanni Gronchi (Pontedera, 10-09-1887; Roma, 17-10-1978), si verificò un deciso cambiamento di rotta al vertice delle Istituzioni rispetto ai predecessori Enrico De Nicola e Lugi Einaudi, liberali entrambi e già monarchici, esponenti di un mondo che, dopo la lunga notte del fascismo, aveva – attraverso di loro – saputo esprimere gli ultimi, intensi raggi di luce. Con il politico toscano si venne ad affermare uno spirito più marcatamente popolare in seno al nuovo Stato repubblicano, in un nesso di continuità ideale con il cattolicesimo sociale del suo maestro don Romolo Murri. Il giovane Gronchi, laureatosi in Lettere e Filosofia alla Normale di Pisa, insegnò alle Superiori dal 1911 al 1915 fino allo scoppio della Prima Guerra mondiale, cui partecipò da volontario come ufficiale di complemento, ricevendo per gli atti di eroismo compiuti una Medaglia d’argento al valor militare ed altri riconoscimenti al merito.

Parecchi anni dopo, nel corso di un’intervista rilasciata al giornale francese Le Figaro, ricordando il periodo trascorso al fronte, dichiarò: “Ero cattolico e conobbi, naturalmente, un dramma intimo quando mi arruolai volontario. Avevamo concepito la guerra non solo come un sacrificio personale, ma come un evento immenso, attraverso il quale l’umanità acquisisce il sentimento del dolore e della vanità dell’orgoglio, e si distacca così dalla vita confortevole. Credo di essere tornato dalla guerra con modi di vivere più umani”. Fu eletto deputato nel 1920 nel Partito popolare di cui con don Luigi Sturzo era stato co-fondatore e sin dagli esordi giovanili, Gronchi si distinse per il suo rigore logico, la ricca eloquenza, l’arguzia pronta (tipica della sua terra), che gli procurarono ampi consensi. Nominato sottosegretario all’Industria e Commercio del primo governo di Benito Mussolini nel 1922, nel 1926 aderì alla secessione dell’Aventino e, ritiratosi a vita privata senza poter più insegnare, si guadagnò il pane come rappresentante di commercio, il che gli consentì di andare avanti sino alla caduta del fascismo.

Fu ministro dell’Industria e Commercio dal giugno 1944 al luglio 1946, nel qual ultimo anno fu eletto all’Assemblea costituente dove, da presidente del gruppo democristiano, in occasione del voto di fiducia al governo Alcide De Gasperi, disse che disse la vera civiltà non era il progresso meccanico, se mancava la solidarietà, vuoi nel campo interno che in quello internazionale: le esigenze dello spirito andavano sempre anteposte a quelle economiche. Dopo le storiche elezioni del 18 aprile 1948 che videro la vittoria della Dc di De Gasperi e la sconfitta dei social-comunisti, Gronchi fu eletto presidente della Camera e vi rimase sino all’ascesa al Quirinale. All’inizio del mandato alla Camera, espresse il suo concetto di democrazia che – disse – “non è soltanto convivenza e libero sviluppo di forze politiche, equilibrio di poteri nella vita e nella struttura dello Stato, ma è soprattutto un costume attraverso il quale la discussione non sarà rissa o scambio di invettive o volontà di sopraffazione, ma sarà invece aperta, chiara, consapevole sforzo di convergenza – pur nella divergenza delle idee – verso uno scopo superiore, che è quello di servire il nostro Paese”. La trascorsa esperienza del fascismo doveva ammonire che “la libertà e la democrazia non sono mai conquiste irrevocabili nella vita di un popolo, ma sono momenti del suo cammino faticoso verso forme superiori di convivenza sociale e politica”. Nel 1954 parlò del superamento del centrismo, affermando che occorreva fare proprie le istanze delle classi lavoratrici, tramite la collaborazione del Psi, il che sarebbe stato il contributo più efficiente allo sviluppo degli istituti democratici nella direzione di un effettivo progresso sociale. Onde fugare il campo da equivoche interpretazioni del suo dire in merito al richiamato concetto di classi lavoratrici, con il conseguente sospetto di pericolose contaminazioni marxiste, tenne a precisare che vi includeva anche i ceti medi, cioè l’intero mondo di coloro che vivevano prevalentemente del proprio lavoro.

Fu eletto capo dello Stato dopo una serie di veri e propri “colpi di scena”, che bruciarono il candidato ufficiale della Dc Cesare Merzagora, mentre Gronchi fu supportato anche dalla Sinistra, per il suo pregresso impegno antiatlantico, terzomondista e di apertura al socialismo. Scelse di continuare a vivere insieme alla moglie tra le mura domestiche di via Carlo Fea, coerentemente all’opzione di riservarsi un suo spazio privato, per non restare “imbalsamato” – disse in un’intervista – nella funzione presidenziale ed isolato dal resto del Paese, poiché avrebbe cercato di avere quanti più contatti possibile con la gente.

Nel messaggio di insediamento parlò della ripresa post-bellica, resa possibile anche dall’aiuto del popolo americano, e sostenne che occorreva ora valorizzare soprattutto il ruolo delle masse lavoratrici e dei ceti medi, che il suffragio universale aveva condotto sino alle soglie dell’edificio dello Stato, senza peraltro introdurli effettivamente nella gestione politica della cosa pubblica. La vita economica, in particolare, doveva favorire una dimensione solidaristica che garantisse, al contempo, il pieno esercizio delle libertà individuali e l’iniziativa privata, eliminando la contraddizione tra l’immensa utilità che si deduceva dal sano svolgersi dell’iniziativa privata medesima, e l’osservanza dei diritti più sacri della giustizia e della libertà umana.

Bisognava combattere i monopoli, porre attenzione al problema dell’occupazione ed impedire l’accentuarsi dei dislivelli economici tra Nord e Sud, con dei programmi di dettaglio la cui elaborazione non spettava certo al capo dello Stato, ma al Parlamento, istituzionalmente promotore dell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, tenuto a seguire le trasformazioni delle strutture economiche e sociali. Lo Stato aveva la responsabilità di mantenere le condizioni necessarie all’ordinato sviluppo democratico della comunità nazionale, ponendosi, per un verso, come imparziale tutore dei diritti di ognuno e dell’uguaglianza dei cittadini e, per altro verso, come inflessibile custode della legalità nell’imporre a tutti l’osservanza dei doveri imprescindibili di un’ordinata convivenza civile.

Essa doveva trarre stimolo, innanzi tutto, da un impegno di moralizzazione severa della vita pubblica e privata, poiché il consolidamento delle istituzioni dipendeva più al costume che non dalle norme. Il presidente concluse con l’auspicio di politica internazionale che da intese limitate e specifiche, potesse gradualmente passare ad accordi più vasti, i quali con un progressivo, controllato disarmo rendessero meno lontana e meno difficile la pace, condizione di prosperità per tutti. Commentando il discorso in questione, il Piero Calamandrei disse che il presidente esaltando la centralità del popolo nella vita sociale, si era rivelato come “Viva vox constitutionis”. A differenza di Einaudi che aveva privilegiato tipologie di comunicazione informali con il Parlamento e con il Governo, il nuovo inquilino del Quirinale si rivolse sovente alle Camere ed al Governo in via ufficiale, richiamandone l’attenzione non solo su profili di rilevanza costituzionale, ma anche di mera opportunità.

Scrisse – ad esempio – al presidente del Consiglio Segni circa la necessità che i provvedimenti inviati alla propria firma, non gli venissero inoltrati alla vigilia della scadenza dei termini prescritti, dato che gli veniva meno in tal modo il tempo materiale di valutarne i contenuti, per promulgazione o il rinvio al Parlamento. In seguito avvertì i Presidenti del Consiglio in carica, circa la necessità che le leggi che comportavano nuovi oneri di spesa, avessero puntuale copertura finanziaria; nonché – parliamo di un governo di Amintore Fanfani – di ridurre il numero dei sottosegretari ad uno per ciascun Ministero, fugando l’impressione che la proliferazione degli incarichi di Governo rispondesse a logiche di mero equilibrio politico.

In materia costituzionale, il giornalista e uomo politico liberale Vittorio Zincone sottolineò una certa esuberanza interpretativa del ruolo presidenziale da parte di Gronchi, partendo dal presupposto che la figura del presidente di una Repubblica parlamentare dovesse risultare più vicina a quella del confessore, che non del predicatore. Comunque Gronchi per eludere i limiti formalmente previsti alla manifestazione di opinioni che, se espresse ufficialmente nell’ambito delle sue funzioni istituzionali, non avrebbero dovuto avere valenza politica, aggirò l’ostacolo facendo ricorso al rilascio di interviste, seguite da generiche smentite che, ovviamente, lasciavano il tempo che trovavano. Quanto ai Partiti, il 5 aprile 1960 nel corso di una polemica con il presidente del Senato, Merzagora, garbata nella forma ma dura nella sostanza, dette la sua interpretazione del concetto di “crisi parlamentare”, ritenendo – a differenza di quest’ultimo – che non era indispensabile, per aversi tale definizione, un previo voto di formale sfiducia, ma che fosse sufficiente il venir meno di una data maggioranza parlamentare.

Nell’ultimo discorso di fine anno, lamentò la proliferazione delle leggi, la scarsa funzionalità dell’Amministrazione, la bassa moralità della vita pubblica, l’incapacità dello Stato di imporsi alle concentrazioni della ricchezza, quando tendevano ad ottenere o conservare privilegi ai danni del benessere comune. In altra sede sostenne che la politica non doveva divenire una professione vera e propria, la quale, generando dipendenza economica in chi ne traeva l’unica fonte di sostentamento, inficiava una sana dialettica democratica, con la partitocrazia che costituiva una deviante minaccia alla libertà del Parlamento.

Essenziale nella sua configurazione dell’uomo politico ideale, era il ruolo della cultura, come strumento fondamentale senza il quale si avvertiva una certa disumanizzazione della lotta politica, ridotta a dei meri rapporti di forza. La cultura in senso lato, andava a costituire un valore aggiunto sotto il profilo della qualificazione professionale, perché essa non significava solo rendimento in senso economico, ma anche morale ed intellettuale. Pertanto la lotta all’analfabetismo non si vinceva soltanto insegnando a scrivere alla meglio il proprio nome, ma offrendo gli elementi di base a che almeno una certa luce di coscienza creasse capacità di discernimento affinché le masse popolari facili non divenissero prede di suggestioni autoritarie.

Una situazione di forte tensione politica si ebbe in occasione del governo Tambroni, (1960) voluto direttamente da Gronchi, sorta di “Governo pendolare”, cioè di minoranza, supportato da maggioranze variabili su dei temi specifici. Si verificarono nell’estate degli scontri tra i manifestanti antifascisti che protestavano contro l’autorizzazione concessa da Fernando Tambroni al Msi di celebrare un congresso a Genova, e la Polizia, dopo i quali il presidente del Consiglio dovette dimettersi. Un’altra spina del settennato in questione, fu lo spazio accordato al generale Giovanni de Lorenzo, capo del Sifar, che attraverso schedature, intercettazioni, informative fasulle ed altre manovre spregiudicate – del tutto estranee ai compiti istituzionali di un Servizio segreto – acquisì a giudizio di molti un’indebita influenza sul presidente della Repubblica (che si sarebbe in seguito perniciosamente accresciuta con il suo successore, Antonio Segni).

Nella circostanza dell’ultimo discorso di fine anno, tracciò un consuntivo degli straordinari progressi compiuti dall’Italia risorta dalle macerie della guerra: era calata la disoccupazione, si erano rese più stabili le occasioni di lavoro per la competitività conseguita dalla nostra industria in campo internazionale, la moneta si era fatta solida e stimata ovunque, erano migliorate alquanto le retribuzioni e si era elevato con ciò il tono generale della vita. Ciò nondimeno, difettava ancora una distribuzione più equa del benessere tra i diversi gruppi sociali, come fra le diverse regioni, con un progresso economico che non portava sempre come naturale conseguenza il progresso morale e civile. Il campo nel quale si dispiegò con maggiore intensità il dinamismo del capo dello Stato, fu quello della politica estera, che svolse talora a latere di quella istituzionalmente spettante al ministro degli Esteri ed al presidente del Consiglio, con conseguenti sovrapposizioni e conflittualità che ebbero ripercussioni anche oltre i confini nazionali. A differenza di Einaudi, che non si era mai recato all’estero in visite di Stato, limitandosi a tenere rapporti epistolari con gli Ambasciatori d’Italia all’estero, Gronchi inaugurò la figura del “presidente itinerante”, compiendo numerosi viaggi, di cui le tappe più significative furono quelle effettuate negli Usa e nell’Urss, dove non sarebbero mancati degli strascichi polemici, avendo cercato vanamente di mediare – rispettivamente – in favore del riconoscimento della Cina comunista e della riunificazione tedesca.

Fu lungimirante – viceversa – nel fervido sostegno alla realizzazione dell’Europa come forza di equilibrio e di pace, in virtù del suo patrimonio ideale di matrice cristiana che includeva lo spirito di giustizia, il rispetto della dignità della persona umana, la generosa e saggia comprensione per le aspirazioni dei popoli verso l’indipendenza e la libertà. Gronchi sostenne altresì la doverosità di soccorrere le nazioni in via di sviluppo, anche al fine di una pacifica ed ordinata convivenza internazionale, poiché il loro altissimo tasso di incremento demografico da una parte, e la persistenza di un bassissimo reddito dall’altra, avrebbero creato una crescente sperequazione fra popoli ricchi e poveri nel mondo ed una lotta di classe internazionale.

 Il 17 ottobre 1978 Gronchi chiuse gli occhi, al termine di una vita intensa nel corso della quale non erano mancate incoerenze, contraddizioni ed umane debolezze, che peraltro non ne scalfirono la dimensione di Statista sensibile ed acuto, impegnato – in ambito interno – a portare a compimento il passaggio dallo Stato di diritto a quello sociale; ed in quello internazionale, alla realizzazione dell’Europa unita e del superamento dei blocchi Est-Ovest. La Patria, eroicamente amata fin dai campi di battaglia della Prima Guerra mondiale, non fu per lui una metafisica astrazione, ma l’espressione reale in cui tutti dovevano veder concretizzati diritti elementari, come quello alla salute, al lavoro ed all’ istruzione.

Alla cerimonia di commemorazione del 40° anniversario della sua scomparsa del presidente Gronchi, Sergio Mattarella ne ricordò la “salda risolutezza nella coerenza con le scelte politiche e sociali delle origini”, mirante al passaggio dalla “democrazia formale” alla “democrazia sostanziale” e l’impegno europeista. A Gronchi – disse il presidente – “il merito di avere contribuito alla costruzione di un’Italia protagonista nella comunità internazionale, di un Paese più prospero e più giusto, di una Costituzione materiale capace di integrare i ceti popolari nella vita democratica. Il merito di aver saputo accompagnare il nuovo che si manifestava nella vita del Paese; in piena aderenza agli obblighi del mandato affidatogli”.

 

Aggiornato il 30 marzo 2020 alle ore 15:08