Non facciamoci lobotomizzare

Nell’auspicio che un giorno si riesca davvero a sapere il perché del Covid-19, visto che di dubbi ce ne sono eccome, l’unica certezza è che in questi mesi è in corso un’operazione incredibile di suggestione per farci cambiare vita e farci digerire stili e modelli sotto dettatura. Qui non si tratta solo dello Smart working, della digitalizzazione, della app Immuni, si tratta di timore, paura, rischio. Insomma, di un insieme di condizionamenti tali per cui si cerca di spingere la gente a considerare conseguenti e ovvi una serie di provvedimenti che non lo sono affatto. Del resto, con l’emergenza nazionale, non solo si è potuto intervenire sulla limitazione di libertà fondamentali, ma piano piano si è iniziato a parlare di un sistema nuovo alternativo al precedente, con l’assunto che nulla dovrà più essere come è stato. Dai controlli ossessivi, ai tracciamenti, ai comportamenti, alle abitudini, a tutta una serie di messaggi su cosa dovremo fare, come dovremo vivere, parliamo di atteggiamenti gestuali, comportamentali, nel lavoro, nello studio, nel tempo libero, nelle frequentazioni, nelle valutazioni.

Sembra che il virus stia segnando una cesura tra il primo e il dopo, ciò che era e ciò che dovrà essere. Come se lo spettro dell’animaletto resti in eterno intorno a noi, pronto a colpirci ancora, al primo tentativo di ritorno alle consuetudini ex ante. Qui non si tratta solo di cautele, attenzioni, precauzioni, che in certi frangenti sono ovvie e di buon senso, si tratta di decisioni politiche, economiche, sociali, industriali, fiscali, che assieme al virus si stanno insinuando nell’ordinamento, provvedimento dopo provvedimento. Dallo statalismo più invadente di ritorno, all’assistenzialismo come cura della crisi, ad uno spostamento del fulcro del sistema Paese verso le banche, le major della tecnologia, l’informatizzazione, gli strumenti di tracciamento e di controllo della società attraverso la rivoluzione digitale. Parliamo di fatturati enormi assicurati. Del resto, il tentativo di allungare lo stato d’allerta, di insistere sui pericoli autunnali, sembra un modo per mantenere alta la suggestione della popolazione e per avviarla progressivamente ad accettare quello che altrimenti non accetterebbe mai.

È in questo quadro che la maggioranza sta gestendo la crisi sanitaria ma, soprattutto, quella economica, in un modo che sembra più proteso a rispettare un protocollo ideologico piuttosto che a contrastare i fattori penalizzanti della chiusura, del blocco produttivo, delle perdite di fatturato e di lavoro. Dal tormentone di colpire l’uso del contante a favore delle carte, dei bancomat, dalla spinta all’utilizzo del computer e del remoto per tutto, all’idea che sia lo Stato a dover essere imprenditore e benefattore, ad un ritorno asfissiante dell’assistenzialismo e del centralismo, senza un accenno ai costi e ai danni enormi collaterali all’economia che comporterebbe tutto ciò. Tutto indicato dallo Stato, tutto concesso dallo Stato, in una sorta di festival della burocrazia che stranamente si annuncia di voler stroncare. Come si annuncia una riforma della fiscalità per diminuirne il peso ma si blandisce il patrimonio degli italiani come risorsa preziosa. È di questi giorni una suggestiva operazione delle entrate che ha messo in rete l’utilizzo della fiscalità, come a dimostrare ai cittadini quanto vengano messe a frutto per il bene collettivo le tasse, per convincere quanto lo Stato sia bravo a spendere e utilizzare le risorse comuni.

Un elenco, del fisco, che è fatto però per capitoli, e non per dettagli degli assunti, impiegati, della enorme quantità di posti inutili negli enti collegati, ma soprattutto riguarda l’Irpef, ed esclude l’altra quantità di tasse che paghiamo, dalle indirette a quelle locali, a tutti quei balzelli che compongono un elenco sterminato. Di questa enormità non si dice nulla sull’utilizzo. Perché? Convincere che la spesa pubblica sia trasferita tutta utilmente in servizi ai cittadini e al Paese, che ogni euro sia messo a frutto a vantaggio dello sviluppo e della collettività, contrasta con la grancassa che si è fatta in questi anni sull’urgenza di una Spending review. Perché delle due l’una, o la revisione non serve perché i soldi sono spesi bene, oppure non è così, ma allora perché fare l’elenco degli impieghi per farsi bravi? Suggestione? È forse un modo per preparare il terreno ad una stretta sulle tasse giustificata dal buon utilizzo, dal vantaggio che se ne trae, dalla restituzione di servizi sempre più efficienti, dalla indispensabilità di un rilancio dalla crisi e della ripresa attraverso un sacrificio collettivo?

Per farla breve, troppe cose sanno di bruciato, troppe blandizie per nascondere la realtà, troppe suggestioni per giustificare decisioni, troppe emergenze per convincere che questo governo sia l’unico possibile e che tutto debba essere cambiato tranne la maggioranza e la sua rappresentanza esecutiva. Ecco perché diciamo: non facciamoci lobotomizzare, alienare dalla realtà, distrarre dai problemi veri che questo governo non sa gestire e contrastare, distrarre dagli accadimenti gravissimi sulla giustizia che non possono risolversi se non con una riforma totale e uno showdown dell’intero comparto che, oramai, è viziato e sfiduciato. Non abdichiamo alla richiesta urgente di quella risorsa fondamentale della democrazia che è l’alternanza, il voto popolare per cambiare, per scegliere un governo e una maggioranza che abbiano un programma chiaro per il Paese al posto di una sorta di narcosi per riuscire a scaricare sui cittadini sbagli e spese.

Aggiornato il 01 giugno 2020 alle ore 13:17