La paura fa Calenda

Nessuna nuova, buona nuova recita l’adagio. Ci riferiamo in particolare al fatto che, sebbene con un po’ di anticipo, è partito l’arrembaggio alle candidature a sindaco di Roma, la Capitale, Caput Mundi di un mondo piuttosto in rovina che non è più impero e, a dire il vero, al chiaro di luna degli ultimi Dpcm abbiamo anche il dubbio che sia ancora repubblicano. “A li mejo posti”, tra i nomi “famosi”, sono spuntati i nomi di Vittorio Sgarbi, il giornalista Massimo Giletti e la senatrice Monica Cirinnà che, grazie agli animali, quelli veri, in Comune ci campa da che io ho memoria. Oltre, ovviamente, alla ricandidatura di disperazione della sindaca uscente, Virginia Raggi: se il Movimento Cinque Stelle da qui alle elezioni non si disintegra, magari qualche voto degli sprovveduti lo prenderà ancora. Ma la candidatura in pectore e ieri sera confermata dell’ex ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha sparso una scia di polvere da sparo pronta a prendere fuoco.

Agli analisti non è sfuggito, da tempo, che nel panorama desolante e desolato della sinistra nostrana – anche se con il suo partito Calenda conta meno del due di coppe l’asso è in tavola – il personaggio piace. Piace perché è preparato, perché ha gestito, perché ha carattere, perché le dice sul muso, perché controbatte, perché quando vuole è caustico, probabilmente ingestibile, vagamente borioso, insomma un battitore libero, uno che indubbiamente ha qualcosa da dire di suo, di non imboccato da guru comici che fanno i ventriloqui rimanendo protetti nelle loro villette al mare fuori dai palazzi dove li avrebbero sicuramente tritati. Luigi Bisignani su Il Tempo – e sul sito di Nicola Porro, come echo chamber dell’attacco diretto – fa dell’uomo un ritratto pressoché impietoso e il giornale titola, nero su bianco, “Carlo Calenda in Campidoglio tradirà anche i Romani”, sic et simpliciter. Non esita quindi a definirlo traditore, uno che gigioneggia, che attacca i suoi benefattori e danti causa, che si defila dal Pd dopo 24 ore dall’esito di elezioni infauste e si fonda il suo partito (Azione) e ne sottolinea il suo essere un prezzemolino televisivo adatto ad ogni salotto, uno che corteggia di qua e di là tutto l’arco costituzionale, sottolineando un certo inquietante silenzio di Forza Italia a riguardo di questa corrispondenza di più o meno amorosi sensi. Chiosa, infine, che per Roma ci vorrebbe qualcuno di più equilibrato. Ci va più delicato David Allegranti, giornalista de Il Foglio, sul suo Il machiavello, facendoci intravedere uno spiraglio di opportunità politica che forse non sarebbe del tutto disastrosa ma ponendosi al contempo una domanda infida e che in effetti in molti si erano già fatti: sarà un altro Matteo Renzi? Nel senso: tra un laghetto di montagna e l’altro, sarà un’altra grande speranza riformista, l’ennesima spinta modernizzatrice ma che poi deluderà? E, magari, aggiungiamo noi, per eccesso di protagonismo?

Una cosa è certa, questo giocatore è spendibile, panchinarlo sarebbe un errore, ma ai romani potrebbe piacere? Sarebbe abbastanza arrogante e abbastanza plausibile per vestire i panni del Romoletto che ai romani piace e che, nel panorama amministrativo, in mezzo a un nugolo di burocratini messi lì a far da passacarte e “tranvieri” senza alcuna arte né parte, manca? Perché, ad esser lucidi dovremmo pensarci al fatto che per ricoprire la carica di sindaco di una città metropolitana – chiunque sia dovrà farla risorgere dalle macerie anche della morìa imprenditoriale dovuta al Covid – bisogna sapere come farsi rispettare, altrimenti ti si bevono come si sono bevuti Ignazio Marino, cioè con uno scontrino.

Ma siamo sicuri che per Roma ci voglia per forza un politico o un amministrativo e non ci voglia invece un personaggio di vera caratura internazionale e non di mezzo cabotaggio che la riporti in auge? A sentire i romani, i migliori sindaci, prima dell’era Spelacchio, sono stati Francesco Rutelli e Walter Veltroni e per certi versi anche Gianni Alemanno, ma adesso il lavoro da fare è titanico, il fondo del barile è più raschiato che mai e forse bisognerebbe presentare un “top di gamma”, che però all’orizzonte ancora non c’è. Una cosa è certa: la paura di Calenda ha fatto novanta e si sono sbrigati a farcelo capire. Che, forse, non è proprio la tattica vincente.

Aggiornato il 19 ottobre 2020 alle ore 14:09