Scolio a “La libertà sta morendo?”

È molto intelligente ed interessante l’articolo di Giuseppe Basini sulla morte della libertà, e pone diverse questioni, alcune delle quali prossime a quelle previste da due grandi pensatori del XIX secolo, come Juan Donoso Cortés e Alexis de Tocqueville. Quando scrive dell’enorme potere dei governi contemporanei rispetto a quelli medievali riecheggia la tesi del “termometro” esposta dal politico spagnolo nel Discurso sobre la dictadura (1849), che non è limitata alla “formula” della dittatura comunista formulata da Lenin nella nota equivalenza il socialismo=potere dei soviet + elettrificazione. Ossia che la tecnica moderna ha potenziato gli strumenti di controllo e dominio. No, Donoso si riferiva al rapporto (inverso) tra religione e politica, o formulandolo diversamente (a la Alexandre Kojéve) tra autorità e potere.

Per cui, se una società umana aveva una fede sicura e condivisa, e un’autorità legittima, di potere (di coazione) ne occorreva poco. Al contrario, quando v’era poca legittimità ed autorità, di coazione ne serviva tanta. Per cui, calando la condivisione comunitaria dei valori (diremmo con termine moderno), i governi per tenersi in sella necessitavano di strumenti di potere progressivamente aumentati: dal “milione di braccia” degli eserciti permanenti, al “milione di occhi” delle polizie, al “milione di orecchie” della centralizzazione amministrativa. Per cui Donoso concludeva, la prossima tappa è la peggiore: “La via è preparata per un tiranno gigantesco, colossale, universale, immenso; tutto è preparato per lui. Guardate, signori, già non vi sono resistenze fisiche, perché con le navi e con le ferrovie non esistono più frontiere e con il telegrafo si sono annullate le distanze; e non vi sono resistenze morali, perché tutti gli animi sono divisi e tutti i patriottismi sono morti”.

Tocqueville era meno pessimista del pensatore spagnolo. Prevedeva una tirannide ma di genere diverso da quella di Tamerlano o Gengis Khan. Scriveva di vedere nel futuro “una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo” e “al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. Assomiglierebbe all’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmente all’infanzia; è contento che i cittadini si svaghino purché non pensino che a svagarsi”. È il dispotismo mite, assai simile a quello descritto da Basini come “capitalcomunismo”, quanto mai insidiosamente opprimente le libertà dei popoli e degli individui. E non solo: l’altra tara di questo potere è la mancanza di legittimità ed autorità che lo rende tanto pervasivo quanto, alla fin fine strutturalmente debole. Tale perché lo sono tutti i poteri che si reggono con la forza e l’astuzia (la golpe e il lione di Niccolò Machiavelli) trascurando il consenso popolare – e così (meglio) – la legittimità.

Basini ed io siamo abbastanza attempati da ricordare come implose il comunismo sovietico: alla fine non trovò un soldato – del più forte esercito del mondo, in grado di polverizzare il pianeta – che rischiasse la vita per difenderlo. Un cazziatone di Boris Eltsin fece abortire il golpe. Ma abortì perché il regime era già morto nel cuore del popolo. E, come il Dio e il Karl Marx di Woody Allen, anche il capitalcomunismo, negli ultimi anni, mi pare che si senta troppo bene. È nervoso per il crescere dei partiti anti-establishment. Per salvare la libertà è necessario ricostruire l’autorità e la legittimità del potere politico. Simul stabunt simul cadent.

Aggiornato il 22 ottobre 2020 alle ore 12:07