Il socialismo desocializzante: un paradosso solo apparente

venerdì 27 novembre 2020


Non sfugge agli italiani che i cantori della “socialità” di Stato sono gli stessi entusiasti fautori dei primi arresti domiciliari in primavera, dei secondi un po’ più blandi in autunno e magari dei terzi in inverno, del lavoro a distanza, del coprifuoco, del “distanziamento sociale” e di tutte le misure liberticide, partorite dal genio dei grandi scienziati del Comitato tecnico scientifico (Cts) e messe nero su bianco nella sfilza dei famigerati Dpcm, cosicché l’era Covid rende evidente il paradosso del socialismo che nasce per socializzare e finisce per desocializzare. A dire il vero il paradosso è solo apparente, poiché gli autentici liberali da mo’ hanno capito che le ricette politiche di tutti i socialismi, variamente declinati in versione hard, soft, light, si risolvono inevitabilmente in restringimento e compressione della libertà, in nome della “conformità”. Il mantra di tutte le sinistre, in Italia e nel mondo, è l’omologazione e il conformismo, con l’aggravante che in Italia la sinistra è stata ed è comunista, sicché reputa la libertà individuale poca cosa rispetto alla sua “socialità”, essendo la prima sempre e comunque sacrificabile in nome della seconda.  E allora ciò che sembra paradossale può essere facilmente compreso, in base a questa semplice equazione: tutto ciò che conduce alla conformità sociale, forzando l’individuo a conformarsi a un modello “sociale” vincolante, piace alla sinistra.

L’equazione è valida nei due sensi; può essere utilizzata sia dalla partenza all’arrivo, sia dall’arrivo alla partenza; sia per capire dove si arriverà adottando i programmi politici di sinistra; sia per capire se nuove tecniche, teoricamente neutre, saranno adottate (in partenza) come programma politico di sinistra. Sulla base di questa equazione, si può stare certi che i “sinistri-globalisti” di tutto il mondo, ma in particolar modo italiani, accoglieranno con grande entusiasmo qualsivoglia nuovo ritrovato elettronico, meccanico, sanitario che possa garantire un maggiore controllo sociale e il correlativo restringimento della libertà individuale. Se così non fosse, non potremmo capire cosa accade oggi nella nostra disastrata Italia e in altre parti del mondo, sia pure in maniera meno drammatica.

Sia chiaro, la questione sanitaria c’entra fino a un certo punto. Il virus cinese, venuto dalla Cina e rimasto in tutto il mondo tranne che in Cina, non può spiegare tutto. Misure tanto drastiche, come lockdown e coprifuoco, per giunta a tempo indeterminato, blocco delle attività, divieto di circolazione, non sono commisurate alla reale letalità del virus, corrispondente grosso modo, secondo i veri esperti – non appartenenti alla nutrita schiera dei “virologi” per autocertificazione, al secolo veterinari e affini, i quali dispensano il loro illuminato sapere negli innumerevoli comitati tecnico-scientifici – a quella del virus della Sars, superiore ma non di molto alla letalità della sindrome influenzale annuale. Ebbene, mettere in discussione tali misure costituisce un reato di lesa maestà, nella specie del “negazionismo”.

In verità molti conti non tornano: dal numero dei morti conteggiati per e con Covid, più verosimilmente dovuti ad altre concause, alle contraddittorie direttive dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), inizialmente “negazioniste” e successivamente “terroristiche”; dalle misteriose “scomparse” di medici e ricercatori cinesi coinvolti nella vicenda, al sostegno cinese al “modello italiano”, apripista del lockdown mondiale; dalla crescita economica della Cina, al suicidio economico dell’Occidente; per non parlare del fatto che si sono rivelate efficaci sia le misure di prevenzione sia gli strumenti di cura della sindrome da Covid–19, mentre persiste l’ossessivo e martellante “bollettino di guerra”, che ci informa giornalmente dei “morti e feriti”, predisponendoci all’ineluttabilità del rimedio finale costituito dal vaccino, e solo dal vaccino ovviamente. Se dovessimo giudicare in base al criterio del cui prodest, avremmo la risposta immediata: nel disastro mondiale, gli unici che hanno un consistente guadagno, insieme alla Cina comunista, sono i Big Pharma, le grandi multinazionali dell’economia digitale, “distanziata” e green (Amazon, Google, Microsoft, Facebook, Tesla), nonché i grandi finanzieri, che si danno convegno annuale a Davos, per mettere a punto e aggiornare di volta in volta il loro Great Reset, basato sul “distanziamento sociale”. Per George Soros e compagni l’uomo non è una persona individuale, unica e irripetibile, con una sua identità culturale, è un frammento dell’umanità indistinta, senza alcun riferimento nazionale e storico; insomma è un numero, è “uno uguale a uno” di cui parla qualcun altro. Se questo “uno uguale a uno” se ne sta a casa, ben “distanziato” dagli altri, nessun danno per la società, anzi.

Ebbene, non ipotizziamo che la pandemia sia l’effetto di un complotto mondiale, bensì che sia diventata l’occasione propizia per una convergenza d’interessi diversificati, ma insistenti nella medesima area culturale della sinistra globalista e socialcomunista. Non a caso i beneficiati dalla pandemia in Occidente coincidono perfettamente con gli avversari di Donald Trump, tenace oppositore dell’imperialismo cinese; e non a caso i munifici finanziatori della candidatura di Joe Biden guardano con simpatia alla bandiera rossa sventolante a Pechino e purtroppo anche ad Hong Kong. Tuttavia, non è nostro costume imporre “dogmi di fede”; supponiamo pure che l’ipotesi sia infondata; sarà almeno consentito nutrire qualche perplessità sul “modello italiano”, tanto più quando i numeri danno ragione al “modello svedese” esattamente opposto. Perché mai dunque avanzare anche il più piccolo dubbio sull’utilità di lockdown e amenità simili viene considerato espressione di colpevole “negazionismo”? Quale indiscutibile verità storica si vuole preservare dalla “negazione”?  Forse qualcuno nega il virus? O piuttosto si limita a mettere in discussione le misure antivurs?

Se il “politicamente corretto” si insinua nelle maglie degli algoritmi e degli strumenti di prevenzione sanitaria, il vero motivo è che le scelte “tecniche” di distanziamento sociale realizzano in fondo i veri desideri e le pulsioni nascoste dei cantori della “socialità” di Stato. I socialcomunisti di ogni risma e latitudine sono affetti da “preventivite” e la loro mission consiste nell’assistere il cittadino, incapace d’intendere e di volere, “dalla culla alla tomba” per evitargli tutte le seccature della vita. L’amorevole assistenza dello Stato onnipresente deve prevenire i mali incombenti, vicini e lontani, prossimi e remoti. S’intende che siffatta assistenza è imposta per legge e pagata con i tributi fiscali e s’intende altresì che il cittadino sarà tanto meglio disposto a farsi assistere, quanto più succube della paura. La prevenzione è dunque il grimaldello per imporre le politiche socialcomuniste pretestuosamente “assistenziali”; mentre la terrorizzante prospettiva del male incombente è il preliminare necessario per innescare e giustificare il meccanismo preventivo.

Il socialismo, nelle sue varie forme (in Italia è più corretto chiamarlo comunismo), giustifica se stesso in nome della socialità, ma in verità impone una “socialità” monopolistica di Stato, fondata sulla fiscalità, che appiattisce e impoverisce la società e riduce l’uomo a strumento della collettività, politicamente orientata a autoritariamente guidata. Sacrificando la libertà individuale, si smarrisce la via del vero benessere sociale e dell’autentica solidarietà fra gli uomini, fondata sulle scelte personali e del libero associazionismo, e si imbocca ineluttabilmente la deriva autoritaria. Non stupisce dunque che, in tempi di Coronavirus, noi liberali guardiamo con molto sospetto e giustificabilissima perplessità a tutti i possibili “distanziamenti sociali”, mentre la nostra sinistra, formatasi alla scuola del comunismo, è ben lieta di toglierci anche il Natale, pur dicendosi contrariata e costretta a farlo per il bene superiore della nostra salute.


di Michele Gelardi