La dittatura del pc (politically correct): il mondo in una stanza

martedì 1 dicembre 2020


Chi è l’Adulto nella stanza? Colui, cioè, che prende le decisioni mentre tutti gli altri fanno solo una grande confusione? Protagonista assoluto e incontrastato dei tempi moderni è la dittatura del “pc”, o politically correct (i suoi più feroci oppositori sono le moltitudini degli have-not, come dimostrano le ultime elezioni presidenziali americane), che si esercita attraverso influencer “glocal”, che agiscono sia a livello global che local, della cultura, dei media, del giornalismo e della moda, veri e propri funzionari di apparato nell’interpretazione che ne dà il filosofo Umberto Galimberti. Per tutti costoro, cioè, la propria identità è data dall’apparato, che non ha un comandante, perché agisce impersonalmente attraverso il nichilismo assolutista del dio Mercato (in cui è il denaro a dare valore a ogni cosa!) che crea gusti, tendenze e bisogni effimeri. È poi il demone pubblicitario nichilista al suo servizio a rendere rapidamente obsolete tutte le cose che desideriamo affinché, una volta consumate, siano al più presto sostituite da altre più belle, al passo con i tempi e perciò soltanto desiderabili. Così, nelle società del benessere, una volta assicurati dal progresso tecnologico i diritti fondamentali di sussistenza, da qualche decennio ha iniziato a lavorare il tarlo del politically correct, fino a divenire una sorta di nuovo totalitarismo del pensiero unico dominante, che ha come suoi funzionari di apparato tutti gli addetti planetari alla comunicazione, compresi noti personaggi della cultura e della politica. Ed è attraverso questi ultimi, grazie al sostegno di immensi capitali investiti nella pubblicità, nei network, nelle Università e nelle pratiche di lobbying, che questa tunica di Nesso imprigiona e imbavaglia, ormai da un ventennio, il dissenso nelle opinioni pubbliche occidentali, grazie alla produzione di norme e di sanzioni amministrative e penali, destinate a produrre una sorta di terrorismo psicologico rispetto alla parte più dissacrante e vitale del linguaggio.

Prendiamo la lite attuale tra Unione europea, da un lato, e Ungheria e Polonia dall’altro, evidenziata nell’ultimo rapporto del 2020 sul rispetto della Rule of law (citata ossessivamente nel testo per centinaia di volte, come un mantra sacro e inviolabile del politically correct), che sta comportando notevoli ritardi nell’approvazione del bilancio settennale dell’Unione e causa, di conseguenza, il blocco nell’erogazione materiale e nell’approvazione da parte dei Parlamenti dei ventisette del Recovery fund (“NeGEu”, Next Generation Eu), che impedisce a Bruxelles di procedere con l’emissione di eurobond. Il fatto è il seguente: per il combinato-disposto degli articoli 2 e 7 del Trattato sull’Unione, un Paese membro può essere sottoposto a procedura di infrazione della Rule-of-law (articolo 2) e sanzionato, fino alla sospensione del suo diritto di voto, al termine di un procedimento piuttosto articolato e complesso (tant’è vero che finora non era mai stata applicato!) specificato nell’articolo 7, in cui entrano in gioco a pari titolo, per quanto riguarda l’avvio del processo, Consiglio, Commissione e Parlamento europei. Nel caso specifico, a Ungheria e Polonia (definite democrazie illiberali) sono state contestate gravi violazioni dei principi comunitari sanciti dall’articolo 2, per quanto riguarda l’indipendenza della magistratura, la compressione dei diritti delle minoranze e l’adozione di leggi illiberali, in materia di contrasto all’immigrazione illegale e sulla libertà di stampa.

Per dare forza a una scelta squisitamente politica, i tre principali poteri della Ue hanno subordinato l’erogazione pro-quota delle risorse del NeGEu al ripristino della legalità violata, mossa quest’ultima considerata ricattatoria (il che, in buona sostanza, è vero) dai due Paesi dell’Europa dell’Est i quali, volendo opporvisi, sono ricorsi all’arma finale del veto sul bilancio Ue, che deve essere votato all'unanimità per la sua approvazione. Per i due dissidenti, però, questo sarebbe come castrarsi per far dispetto alla propria moglie, visto che i fondi Ue valgono, rispettivamente, il 4,5 e il 3 per cento del loro Pil! Tra l’altro, una buona parte del motore delle loro economie è costituito dai notevoli investimenti che, dalla loro adesione, hanno fatto le più grandi case automobilistiche tedesche, delocalizzando in quei territori gran parte della loro produzione. Non solo: anche i Paesi frugali (e l’Olanda, in particolare), molto più intransigenti sul rispetto della Rule of law, potrebbero scegliere la contromossa di un ulteriore ampliamento e inasprimento normativo delle sanzioni, esercitando (in una sorta di terzo principio di Newton dell’azione-reazione, come specificato da The Economist del 26 novembre) a loro volta il diritto di veto sul bilancio comunitario. A norma di Trattati, è sempre possibile procedere a venticinque per emettere debito comune, escludendo dal meccanismo Ungheria e Polonia, cosa già sperimentata in passato sul regime dei cambi, quando gli altri Paesi aggirarono il veto di Camerun che voleva garanzie sul mantenimento dell’autonomia della City.

Secondo elemento: le opinioni pubbliche di Ungheria e Polonia sono nettamente eurofile, aspetto da tenere nel massimo conto da parte dei loro governanti. Tuttavia, il fatto di fare coppia potrebbe giocare nettamente a favore di Ungheria e Polonia per la legge dell’inerzia newtoniana. In base all’articolo 7, qualsivoglia sanzione definitiva avverso uno Stato membro deve essere presa con voto unanime da parte dei restanti ventisei Paesi. Nota The Economist che Ungheria e Polonia non sono i soli a essere insofferenti rispetto al combinato-disposto degli articoli 2 e 7 del Trattato, in quanto in folta compagnia di Paesi come la Bulgaria (accusata di corruzione politica e amministrativa); Malta e Slovacchia responsabili dell’assassinio di giornalisti scomodi; Cipro per la vendita compiacente di passaporti a persone extra Ue poco raccomandabili; la Croazia per la sua politica di respingimento dei migranti alla frontiera. Sicché, nota il settimanale inglese, qui non si tratta tanto di onorare un patto d’onore tra malandrini, quanto di evitare di essere i prossimi a finire nel mirino! Pertanto, tutti i Paesi citati potrebbero scegliere di lavarsene le mani astenendosi. Quindi, il tutto potrebbe finire a tarallucci e vino, come da sempre accade per il rispetto dei parametri di Maastricht, per cui le regole ci sono ma si evita di applicarle. Del resto, non è forse vero che il Partito di Viktor Orbán continua a rimanere nella coalizione dello stesso gruppo parlamentare di Angela Merkel? Fatta la legge, prevale l’interesse pratico dell’inerzia! E, forse, è meglio così.


di Maurizio Guaitoli