Disfunzioni del sistema giudiziario e la responsabilità del giudice

Nonostante una certa stampa abbia insistito molto per far passare il messaggio secondo cui la vicenda che ha riguardato Luca Palamara sia stato il punto più basso toccato dalla magistratura italiana nella sua storia, in realtà, le cose non stanno affatto in questi termini, perché il fondo era già stato toccato da tempo per le numerose disfunzioni evidenziate da un sistema in cui crede ormai soltanto il 20 per cento degli italiani. Non è nostra intenzione ridimensionare la vicenda che ha portato alla recente rimozione di Luca Palamara – peraltro, ancora non esecutiva finché non si sarà espresso in merito il giudice disciplinare di secondo grado che potrebbe anche ribaltare la dura decisione della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura (Csm) – perché ciò che è accaduto quella famosa sera, in un albergo di Roma, dove si è parlato di fatti consiliari “extra moenia”, è oggettivamente grave, altrimenti non avrebbe campeggiato sulle prime pagine di tutti i quotidiani nazionali per quasi due mesi. Infatti, oltre ad aver travolto una delle figure di magistrato più influenti dell’ultimo decennio, Luca Palamara, ha indotto alle dimissioni ben sei componenti dell’attuale Csm, nonché il Procuratore generale della Corte di cassazione dell’epoca, Riccardo Fuzio, ed il presidente dell’Anm (Associazione nazionale magistrati) dell’epoca, il giudice Pasquale Grasso.

Quindi, di sicuro, non si è trattato di una vicenda montata ad arte da una testata giornalistica per interessi editoriali di parte, come in questo Paese capita, purtroppo, non di rado, ma è stata proprio una delle peggiori figure che la magistratura italiana abbia mai riportato nel corso della sua plurisecolare storia. Tuttavia, bisogna anche aggiungere che sono almeno trent’anni che l’ordine giudiziario rimedia figure non degne e per questo nel Paese si è largamente diffusa la percezione che abbia abdicato al ruolo di garanzia per i cittadini, vittime due volte perché contribuenti ed utenti di un servizio che spesso non funziona e che sovente li persegue ingiustamente. Questo aspetto, meno mediatico, è molto più grave della riunione notturna che ha campeggiato per mesi su tutti i media, la cui risonanza è stata amplificata anche dalla pubblicazione della chat telefonica di Palamara che ha impietosamente evidenziato gli eccessi delle arcinote degenerazioni del sistema delle correnti interne all’Anm. Ma questa non è una grossa novità visto che il primo a subire le conseguenze negative di questa degenerazione fu Giovanni Falcone quando il Csm, nel 1987, gli preferì un magistrato individuato proprio dalle correnti per sostituire il suo grande compianto amico Nino Caponnetto alla guida dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Ma il Csm diede il meglio di sé nel febbraio del 1992 quando doveva nominare Falcone al vertice della Direzione nazionale antimafia, nata proprio da un’idea di Giovanni Falcone. Nonostante ci fossero solo tre magistrati in lizza, il Csm preferì con 3 voti a 2 il suo concorrente Agostino Cordova rinfacciandogli la “colpa” di voler guidare la creatura di sua invenzione, cioè, proprio quella Direzione distrettuale antimafia che, grazie a Giovanni Falcone, si è rivelata l’arma vincente che ha inflitto colpi durissimi a Cosa Nostra, nonostante qualche scettico di Magistratura democratica l’avesse definita una “ferraglia”. Una “ferraglia” che però scaturiva dall’esperienza acquisita durante il maxi processo a Cosa Nostra che gli è costato la vita. Non a caso, i tre voti a favore di Agostino Cordova, magistrato non di sinistra, provenivano da 3 consiglieri del Csm rigorosamente di sinistra, due togati (Alfonso Amatucci e Gianfranco Viglietta) ed un laico del Partito Democratico della Sinistra (Franco Coccia). Ma prima che la sua bocciatura divenisse ufficiale, ci pensò direttamente la mafia a togliere dall’imbarazzo il Csm uccidendo Giovanni Falcone nel maggio del 1992. Deceduto Falcone, qualcuno aveva pensato bene di candidare Paolo Borsellino alla guida della super Procura, ma, anche in questo caso ci fu un tentativo di sbarrargli la strada all’interno del Csm ed anche in questo caso ci pensò nuovamente la mafia a togliere dall’imbarazzo il Csm uccidendo, nel luglio del 1992, anche quest’altro grandissimo magistrato.

Quindi, questo era il Csm delle correnti 30 anni fa e tale è rimasto ai nostri giorni. Infatti, la vicendaPalamara” è in linea con tutto questo, ma oggigiorno i problemi da risolvere sono altri, in quanto la degenerazione correntizia è strettamente connaturata alle bramosie di potere, alle meschinità, alle invidie ed alle gelosie che sono caratteristiche imperiture dell’animo umano rispetto alle quali non è possibile intervenire per legge. Mentre forse si può, anzi, si deve intervenire sulle cause che hanno ridotto la giustizia nelle condizioni in cui si trova e che non hanno nulla a che vedere con il tema delle correnti, perché i fattori di progressiva degenerazione che hanno portato la giustizia italiana, in particolare, quella penale, a diventare un inaffidabile “mostro a tre teste” sono molteplici ed affondano le loro radici nella indubbia peculiarità del nostro sistema giudiziario e nell’altrettanto indubbia peculiarità che caratterizza la testa e la cultura di base dei magistrati. La vicenda che ha riguardato il collega Luca Palamara ha fatto, in qualche modo, da spartiacque perché è intervenuto perfino il presidente della Repubblica, Sergio Matterella, per richiamare all’ordine il Csm, in qualità di suo presidente, per la clandestinità della riunione notturna, apostrofata, dai media, sullo stile dei “moti carbonari di Napoli del 1820”. Ed è intervenuto anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che ha subito presentato in Parlamento un disegno di legge di riforma del sistema elettorale del Csm mediante sorteggio, che non sarà mai approvato, ma che merita apprezzamento almeno per la veloce risposta istituzionale fornita dal ministro.

Tuttavia, come detto, bisogna secernere tra lo scandalo mediatico seguito alla scoperta della riunione notturna, rispetto ai danni, ben più gravi, che la magistratura arreca sempre più spesso con provvedimenti giudiziari che hanno rovinato la vita ormai a troppe persone innocenti ed è su questo che il legislatore deve intervenire rapidamente in quanto l’errore giudiziario non rappresenta più un caso isolato come un tempo, ma sono sempre più diffusi gli episodi che hanno reso meno certa ed affidabile la pretesa punitiva statale. Quindi, il sistema non è di sicuro diventato un “mostro” per colpa di Luca Palamara, poiché fuori controllo già da anni e ciò è accaduto per varie ragioni tra le quali va messa al primo posto l’introduzione del nuovo codice di procedura penale voluto, nel 1989, dal ministro della Giustizia dell’epoca, Giuliano Vassalli e materialmente scritto dalla commissione ministeriale presieduta dall’avvocato Gian Domenico Pisapia. Tale riforma ha introdotto il cosiddetto processo all’americana, segnando il “de profundis” del sistema giudiziario penale perché – nel lodevole tentativo di evitare il ripetersi di gravi errori giudiziari come l’arresto del noto presentatore Rai, Enzo Tortora – ha finito con il consegnare, involontariamente, l’Italia in mano ai pm. Non a caso, il nuovo codice è entrato in vigore nel novembre del 1989 ed il primo “grosso colpo”, per così dire, del nuovo codice, cioè, dei pm nelle cui mani l’Italia è stata consegnata, è stato il processo “Mani pulite” aperto nel febbraio del 1992 dalla Procura di Milano che, se da un lato ha avuto l’indiscutibile merito di scoprire la dilagante corruzione politica che regnava indisturbata nel Paese, dall’altro, ha anche fatto emergere, da subito, falle strutturali del processo pericolose per i cittadini, anche perché tappate da interventi normativi disarmonici che ne hanno progressivamente stravolto l’impianto. Un errore imperdonabile è stata la soppressione della figura del giudice istruttore, perché è mancata la garanzia di controllo proprio sull’operato del pm, non recuperata dalle figure processuali istituite dal nuovo codice. Da questo punto di vista, il legislatore del 1989 ha gravi colpe perché “scimmiottare” gli americani nel settore giuridico è un controsenso assoluto, visto che la culla del diritto è notoriamente l’Italia e non gli Stati Uniti d’America, che magari hanno altro da insegnare.

Un’altra causa che ha ridotto il sistema giudiziario al collasso è l’assenza di una responsabilità diretta del magistrato nel “merito” delle proprie valutazioni giudiziarie. È questo il vulnus che ha permesso, in alcuni casi, un uso strumentale della giustizia penale, poiché il giudice non è mai direttamente responsabile delle determinazioni assunte all’interno del perimetro del provvedimento giudiziario. Ma la legge, in origine, aveva correttamente previsto tale “irresponsabilità” a presidio del principio costituzionale di autonomia ed indipendenza dalla magistratura da ogni altro potere e si trattò di una decisione saggia e condivisibile quando la magistratura sbagliava raramente perché il contenuto del provvedimento giudiziario si accompagnava, solitamente, ad una presunzione assoluta di affidabilità, cioè, era molto raro che il giudice sbagliasse nel merito della valutazione degli elementi di prova travisando i fatti processuali. In questo quadro, l’“irresponsabilità” era legittima, anche perché bilanciata dalla possibilità, per i cittadini colpititi da provvedimenti ingiusti, di far valere le proprie ragioni esclusivamente nei successivi gradi di giudizio, in quanto alle corti di secondo grado vengono solitamente applicati giudici con maggiore esperienza e stesso discorso vale per la Corte di Cassazione, l’unico giudice di terzo grado in cui, di regola, vengono applicati magistrati con anzianità superiore ai giudici d’Appello. L’impianto disegnato in questo modo quasi un secolo fa è miseramente fallito e ne hanno fatto le spese troppe persone innocenti perché, medio tempore, la mancanza di una responsabilità diretta ha permesso a qualche magistrato di potersi “sbizzarrire” nel perimetro del provvedimento ben sapendo che un eventuale “sconfinamento” non può mai essere fonte di responsabilità diretta, civile, penale o disciplinare.

Questo vulnus, portato ad estreme conseguenze solo da quella parte più ideologizzata, ha comportato che i giudici, in qualche caso estremo, abbiano perso di imparzialità nei loro provvedimenti disattendendo gli elementi di prova acquisiti agli atti ben sapendo che questo tipo di forzatura comporta la più totale irresponsabilità, in quanto il cittadino si può, al massimo, rivalere nei confronti del ministero e non già nei confronti del magistrato che fa salva tasca e carriera. Quindi, oltre a discettare sulla degenerazione delle correnti dell’Anm, il legislatore dovrebbe anche introdurre riforme che contemplino una responsabilità del giudice che garantisca maggiormente i cittadini dal rischio di essere vittime di ingiustizie, perché l’attuale sistema giudiziario è funzionale ad una magistratura che non esiste più. E la responsabilità deve avere anche un rilievo penale introducendo nel codice – nel rispetto dei principi di tipicità, di tassatività, di sufficiente determinatezza e di irretroattività delle fattispecie – l’ipotesi di reato che punisca direttamente l’abuso del magistrato quando sia comprovato un diniego di giustizia. Ciò eliminerebbe margini valutativi che hanno prestato il fianco ad abusi processuali mediante la forzatura nella valutazione degli elementi di prova a carico che hanno rovinato la vita a troppe persone innocenti come avvenuto troppo spesso nell’ultimo trentennio. In questo modo, alcuni giudici la smetterebbero di fare “politica”, in quanto il provvedimento giudiziario sarebbe fonte di responsabilità diretta, in casi tassativamente previsti dalla legge. E, contrariamente a qualunque strumentalizzazione di sorta, la giustizia non subirebbe alcuna paralisi perché questa dovrebbe essere sempre la regola, cioè, che le sentenze e gli altri provvedimenti giudiziari rispondano sempre al contenuto delle acquisizioni, perché anche questo è il significato della scritta “La legge è uguale per tutti” presente nelle aule di giustizia che il giudice ha alle proprie spalle quando, in nome del popolo italiano, legge, in piedi, il dispositivo di sentenza, sia esso di condanna o di assoluzione.

La giustizia, per essere la cosa seria che pretende di essere, deve rovinare meno vite umane, tuttavia, il numero di errori giudiziari che la cronaca registra è in costante e preoccupante crescita, secondo dati del ministero della Giustizia desumibili dall’enorme numero di domande per ingiusta detenzione presentate negli ultimi anni. Ed una certa sfiducia del legislatore nei confronti del potere giudiziario è confermata dal fatto che, nel 2017, è stato introdotto, nel processo penale, un quarto grado di giudizio per errore di fatto, impensabile fino a qualche anno fa nei confronti di quelle che, una volta, erano le insindacabili valutazioni della Corte di Cassazione. Nella stessa direzione si pone anche la legge di riforma del 2015 che ha esteso la responsabilità civile dei magistrati proprio in caso di comprovato travisamento dei fatti e che ha sancito un significativo passo in avanti, ma, avendo mantenuto il sistema della responsabilità indiretta, non ha risolto molto, mentre solo la responsabilità diretta, penale, civile e disciplinare, tipizzata e sufficientemente determinata, è in condizioni di impedire strumentalizzazioni “politiche” di sorta. Ma sul tema magmatico della “giustizia politica”, la “sfiducia” nei confronti del potere decisionale dei giudici ha radici lontane, perché già nel 400 (avanti Cristo), nell’Apologia di Socrate, Platone stigmatizzò il processo al suo maestro da parte degli ateniesi che lo condannarono a morte per le idee che professava e, quindi, senza alcuna colpa, perché, secondo Platone, si trattava di un “processo politico” per perseguire un reato d’opinione “senza che Socrate avesse mai incitato alla violenza”, in una società, come quella greca, che si proponeva al mondo occidentale come faro di civiltà e democrazia. La storia dovrebbe essere maestra di vita, eppure sono passati quasi 2500 anni e non sembra che abbiamo imparato granché.

 

Aggiornato il 18 gennaio 2021 alle ore 08:08