Costruttori in crisi, democrazia senza principi

Crisi ed emergenza. Oggi, questo binomio rappresenta la chiave di volta di una costruzione dall’alto del potere che sembra in grado di porre tra parentesi i (fragili) principi della democrazia rappresentativa. Quest’ultima, in Italia e non solo, non ha più nulla a vedere con la volontà popolare, avendo le leadership al comando perduto la verginità di colui che è politicamente chiamato a parlare e agire in nome del popolo sovrano. Troppo costose per i candidati le rispettive campagne elettorali, senza più un grande Partito a pagarne le spese e a mobilitare capillarmente il consenso nei territori. Troppo diffusi i partiti padronali (privi di organi decisionali collegiali e spesso creature del fenomeno virtuale dei social network) che, per semplice cooptazione, sono in grado di nominare parlamentari i loro fedeli vassalli. Troppo grandi gli interessi economico-finanziari che dilagano oggi indisturbati, a seguito del dissolvimento di tutte le dighe politico-ideologiche che premiavano l’etica e la solidarietà contenendo lo strapotere del denaro e l’arbitrio della forza. Questa clamorosa obsolescenza della democrazia rappresentativa ha come causa primaria il distacco tra il Palazzo e il Popolo, ovvero tra Paese legale (in cui tutte le forme sono rispettate in nome della balance-of-power stabilita dalla Costituzione) e quello reale che si fonda sulla materia viva di una nazione, che è poi costituita dai suoi cittadini e dalla loro operosità. Le maggioranze governative, cioè, si fanno per combine parlamentari come se fosse un fatto privato, indipendente dalle scelte degli elettori.

All’interno del sistema istituzionale italiano, queste tare originali delle regole che governano la formazione della rappresentanza democratica sono entrate in risonanza distruttiva, amplificandosi oltre misura a seguito del “genocidio” politico operato da Mani Pulite a danno dei grandi partiti della Prima Repubblica. Perfino il Moloch del Partito Comunista italiano, negli anni immediatamente successivi al 1989 fino alla fine dell’Urss nel 1991, si era andato sgretolando e aveva visto franare irrimediabilmente il suo soggetto storico, quella classe operaia, cioè, che andava progressivamente e rapidamente perdendo le sue radici identitarie con l’avvento della globalizzazione e della progressiva finanziarizzazione dell’economia. Questa rivoluzione silenziosa ha completamente rimosso (tranne che nella maggior parte delle Pmi italiane con poche decine di dipendenti) il rapporto interpersonale e umano, tra il “padrone” capitalista e i suoi dipendenti, cedendo così per sempre il passo all’anonimia delle società multinazionali e alla dittatura del profitto, attuata da centri decisionali remoti e impersonali. Il grande vincitore della scissione di Livorno del 1921 (che quest’anno celebra il suo mesto centenario), persa l’uniforme della tuta blu da lavoro, ha indossato un maldestro vestito di Arlecchino, prima ribattezzandosi in Partito Democratico della Sinistra e poi in Partito Democratico mentre ruminava nel suo grande ventre molle vari spezzoni della vecchia Democrazia Cristiana di sinistra e del liberalismo solidale, che ne hanno del tutto snaturato l'originaria impostazione ideologica.

Infatti, dagli anni Novanta in poi, le nuove leadership così dette di sinistra si sono perdutamente innamorate della globalizzazione, del multilaterismo e del relativismo culturale, scegliendo di fatto valori del tutto estranei alle lotte operaie della sinistra storica e tradizionale. Tant’è vero che, almeno qui in Italia, sono state premiate dal voto delle così dette “Ztl” (Zone a traffico limitato) dei quartieri centrali e borghesi dei principali insediamenti urbani, abitati dai ceti radical chic e dai numerosi adepti del politically correct di obamiana memoria, a loro volta indottrinatisi nella religione laica dei campus universitari americani frequentati dalle generazioni del Sessantotto. Tutto ciò perché, in fondo, il fattore omologante dell’economia globalizzata ha reso tutti uguali quegli angoli di mondo che partecipano alla grande giostra della crescita economica illimitata. Così, oggi, ci si appella alla green economy tacendo però sul fatto ovvio che, comunque, la Terra ha risorse limitate e quelle concretamente e potenzialmente disponibili si distribuiscono secondo una ovvia funzione competitiva di vasi comunicanti: qualche area geografica cresce molto, a discapito di altre che perdono contestualmente terreno sui mercati internazionali. Una giostra vertiginosa, quindi, dove ognuno è chiamato a rincorrere e superare tutti coloro che lo precedono, pena l’impoverimento della propria popolazione e l’emergere di gravi disordini sociali. Ecco: l’Italia oggi si trova qui, nella retroguardia.

Stretto nella morsa della sopravvivenza a tutti i costi di Giuseppe Conte (per Pd e M5S un simbolo e una condanna a stare assieme o cadere all’unisono), il nostro Paese non muove un solo passo in avanti. Anche perché, detto francamente, dovremmo fare prioritariamente le riforme (a costo zero, tipo: giustizia, fisco e Pubblica amministrazione) che ci chiede Bruxelles, per poter poi beneficiare delle risorse del Recovery fund. Ma noi, semplicemente, non possiamo farle, perché non abbiamo un Governo forte, né un sistema istituzionale che ce lo consenta, in ragione del fatto che tutto il sistema sociale italiano è basato sulla cultura dello scambio di favori a tutti livelli, che privilegia l’assistenzialismo diffuso e penalizza il merito. A tutto ciò, si affianca una cecità e una impreparazione delle attuali classi dirigenti davvero strabilianti. Nella fase di stallo immediatamente successiva al clamoroso risultato elettorale del 2018, sarebbe bastato lasciare che si insediasse il Governo di Carlo Cottarelli, in modo da decantare la situazione ribollente dei veti incrociati sulle alleanze, lasciando il tempo necessario per un ricalcolo accurato del peso specifico delle forze politiche in campo, in modo da arrivare alle elezioni europee del 2019 (governate dal sistema del proporzionale puro) e alle successive tornate del voto amministrativo per il rinnovo di importanti consigli regionali. E, forse, l’unica soluzione alternativa al Conte-ter sembra, a quanto pare, ancora quella del ricorso al…Papa straniero.

Aggiornato il 25 gennaio 2021 alle ore 11:42