I numeri in democrazia, il calcolo delle rappresentanze

Come sta la Democrazia? Tra gli over e under-represented (sovra/sottorappresentati). Come a dire: “È messa veramente male”. Ovvero, non riesce a contare la sua rappresentanza. Praticamente, l’inizio della fine. Chi andrà alle consultazioni con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si troverà nella sgradevole situazione di sentirsi sovra o, al contrario, sottorappresentato, per cui sa che dovrà esprimere le sue considerazioni tenendo conto di una distribuzione di pesi truccati. Prossimamente, a vedere la luce sarà il terzo Governo di questa legislatura, partorito dalle manovre di palazzo e dagli accordi dietro le quinte dei gruppi di Camera e Senato, avallati poi dal Quirinale, senza che a questa scelta presidenziale (comunque certamente ponderata) corrisponda in qualche modo un orientamento chiaramente espresso dall’elettorato. Finora, hanno vinto le poltrone da ministro quelli che avevano perso, prima la Lega e poi il Partito Democratico, avendo rispettivamente ricevuto nel 2018 una percentuale di voti intorno al 18 per cento, contro il 33 per cento all’incirca del M5S il quale, come Partito di maggioranza relativa, avrebbe avuto il diritto di ricevere l’incarico di Governo, una volta individuata una maggioranza parlamentare a sostegno. Tuttavia, poco più di un anno dopo, alle Europee del 2019 (che si sono svolte con il sistema del proporzionale puro) il Movimento aveva visto letteralmente dimezzare i propri consensi, mentre la Lega, il suo alleato di governo di allora, li aveva raddoppiati. Da lì, l’inopinata crisi di Governo, voluta da un Matteo Salvini trionfante e letteralmente “ebbro” di successo.

Così, dal taxi del Movimento è scesa la Lega ed è salito il Pd con il quale, guarda caso, i dirigenti grillini avevano spergiurato che non si sarebbero mai alleati, così come non l’avrebbero mai fatto con il “demonioSilvio Berlusconi. Guarda caso, oggi Giuseppe Conte va cercando proprio i voti parlamentari di Forza Italia (passata dal 14,4 per cento del 2018 all’8,8 per cento del 2019) o, in alternativa, proprio per non smembrare il finto monolite dei Cinque Stelle antiberlusconiani, quelli di un gruppo di onorevoli “lanzichenecchi”, ribattezzati in costruttori (il massimo dell’ipocrisia, per quanto riguarda il consenso mercenario). Costoro rappresentano un più o meno nutrito gruppo di questuanti (per ora, numericamente insufficiente a blindare un Conte-ter), ciascuno con la sua bella lista di favori da chiedere: il massimo della precarizzazione per un Governo che (se nascerà) dovrà mostrare grande compattezza e decisionismo, per quanto riguarda i progetti, gli investimenti, i cronoprogrammi e la conseguente capacità straordinaria di spesa (infatti, le risorse assegnate dovranno essere impiegate entro il 2026), in modo da corrispondere alle attese di Bruxelles e rispettarne le conditionalities per quanto riguarda l’erogazione per tranches dei fondi assegnati all’Italia dal Recovery fund. La Confindustria, per tramite del suo presidente, Carlo Bonomi, si è già fortemente dissociata da quella che si prevede una gestione sconclusionata, clientelare e incompetente delle risorse del Next generation Eu. Posizione condivisa dal Commissario italiano all’Economia, Paolo Gentiloni.

In generale, uno strumento eccellente per disincentivare il cambio di casacca è rappresentato dall’introduzione anche nel sistema istituzionale italiano del meccanismo anglosassone del recall. Ovvero, la possibilità per l’elettore di revocare il mandato all’eletto che abbia abbandonato il proprio gruppo parlamentare di appartenenza, raccogliendo a tal fine un numero sufficiente di firme nel relativo collegio elettorale, in modo da provocare la decadenza del parlamentare contestato e di convocare contestualmente successive elezioni. Intanto, il Conte-bis tenta di diventare senza colpo ferire “ter”, cambiando ancora una volta la sua maggioranza parlamentare di sostegno. Un Leopoldo Fregoli politico di cui non si ha notizia a memoria d’uomo! Il problema è che un Governo simile, agli occhi di molti (soprattutto di quelli come Italia Viva, che utilizzano il Parlamento come una piattaforma girevole per uscire o entrare a loro piacimento nei recenti Governi della Repubblica), rappresenta una pentola senza coperchio. Per di più favorire un ritorno di Conte sarebbe come allevare una serpe in seno, visto che alle prossime elezioni (che comunque ci saranno, fino a prova contraria) la sua lista potrebbe togliere non pochi consensi sia al Movimento che al Pd.

Quindi, al punto in cui siamo, la mossa spregiudicata di Matteo Renzi sarebbe coronata da successo pieno, perché i due principali soci dell’attuale alleanza avrebbero tutto l’interesse a tenere fermo Conte in una posizione di stallo, che giocherebbe a suo sfavore in ogni senso, visto che il presidente del Consiglio dimissionario non è né un eletto (impossibile, quindi, nel suo caso, formare un gruppo parlamentare con spezzoni di Pd, Fi e M5S), né un magnate alla Donald Trump/Silvio Berlusconi in grado di finanziare una sua formazione politica per raccogliere consensi alle prossime elezioni. Ma, visto il carattere sempre mutevole della politica e dei politici italiani, occorre dare per scontato che Renzi farà ruotare in entrata quella famosa porta girevole, accontentandosi del licenziamento del suo attuale, irriducibile avversario che lo ha sfidato nella conta parlamentare. Ciò che, però, non si riesce a capire è che cosa ne guadagnerà l’Italia, dato che le riforme di sistema (Pubblica amministrazione, Fisco, Giustizia), pregiudiziali all’erogazione dei fondi del Recovery, nessuno è veramente in grado di realizzarle in tempi rapidi, visto che la Costituzione rende talmente gracile la figura del capo del Governo da non consentirgli una direzione forte e a prova di interessi particolari nella realizzazione dei grandi progetti-Paese. Hic Rhodus, hic salta.

Aggiornato il 27 gennaio 2021 alle ore 10:30