La lunga strada rossa, anatomia della disfatta democratica della nazione

martedì 23 febbraio 2021


Poco più di un decennio fa, nel pamphlet “L’Italia che (non) cambia”, un agghiacciante assieme di fosche considerazioni su vari aspetti patologici della nostra nazione. Dal parassitismo politico allo Stato-Moloch con la sua burocrazia d’accatto, dalla disfatta dell’etica della politica alla morale diventata “plastica”, da una società ancora “stracciona” ad un perseverante conformismo culturale, sostanzialmente ideologizzato in chiave illiberale e tardo-marxista. Da un atavico ritardo storico ad un riformismo maledetto e impossibile. Nonostante tutto, così scrivevo: “… sovente vi si associa anche il potere giudiziario, in special modo con alcuni suoi magistrati inquirenti, che – a parte una pur facile credenza, come a volte è dato vedere, circa una loro volontà di conquista del potere per conto della sinistra – ritengono di assumere il ruolo di tribuni della plebe”. Nulla di più erroneo! Non era né è una “facile credenza” poiché, con il caso Palamara e le sue rivelazioni, si chiude un loop osceno e tragico allo stesso tempo, mortale per la nostra già malata democrazia, nata da una Costituzione pasticciata, tra infausti compromessi e profonde lacerazioni.

Ma tale punto di arrivo, che non è affatto casuale, si colloca alla fine di una lunga traiettoria, una lugubre “linea rossa” che parte da lontano – “la svolta di Salerno” del 1944 e che descrive l’intero itinerario del Partito Comunista italiano, il più grande di tutto l’Occidente, che via via mutava il nome in Partito democratico della Sinistra, Democratici di Sinistra e Partito Democratico, con le sue strategie di lotta e di infiltrazione nel mondo della cultura non meno che in tutti i settori della società, finendo per occupare così tutto lo spazio di potere che l’indulgenza collettiva, metabolizzatane l’aspirazione rivoluzionaria,  gli ha consentito. La “svolta di Salerno”, dunque, cioè l’offerta di collaborazione al governo Badoglio, che si risolveva nella formula della “democrazia progressiva” e che da un lato consentiva al Pci di restare agganciato alla formula ciellenistica e dall’altro spostava in avanti le speranze palingenetiche per le quali si erano battute le brigate comuniste nella Resistenza, fu opera di Palmiro Togliatti, soprannominato “Il Migliore”, termine che ebbe un significato ironico nel contesto della lunga fase stalinista della tradizione rivoluzionaria marxista in Italia. Questi, consapevole dell’impraticabilità di un disegno insurrezionalista, da perfetto stalinista fino alla fine, mirò alla “nazionalizzazione” dei comunisti in un “partito nuovo”, la cui strategia gradualistica era tesa a fagocitare i socialisti in un unico partito operaio, che puntava ad un radicale mutamento sociale in una democrazia di “modello leninista”.

In realtà, il “partito nuovo” togliattiano, che ben presto avrebbe conquistato la leadership della sinistra, basava la sua azione strategica sulla elaborazione gramsciana di egemonia culturale, il cui fine pratico era la conquista del monopolio del potere politico ovvero la dittatura del Partito Comunista, quindi la conquista dello Stato e dei suoi apparati – amministrativi, giurisdizionali – nonché del mondo della cultura e della società civile, che dietro lo Stato si rifugia. Insomma, un partito-melassa, dove Togliatti attirò anche molti intellettuali che avevano militato nelle file del fascismo, in cui continuò a coesistere una concezione catastrofistica del capitalismo in uno alla sua imminente agonia; quindi, lo zoccolo duro della subcultura comunista, che nulla aveva a che fare con i valori dello Stato di diritto, della cultura e della tradizione liberal-democratica, che restarono estranei ai comunisti anche quando firmarono la Carta costituzionale che li aveva recepiti.

Certo è – e occorre anticiparlo sin da ora – che il Partito Comunista ha avuto un ruolo pedagogico di primo piano nella formazione di una coscienza intellettuale, specialmente nell’ambito giovanile, anti-sistema e rivoluzionaria fino al ’68, ma anche oltre, ciò che poi ha dato i natali al brigatismo rosso, sebbene gli intellettuali organici del Pci abbiano cercato di occultare siffatta letale pedagogia. Vi è pure che il “partito nuovo” ha usufruito, per lungo tempo, di un gettito proveniente da “tangenti” sul prospero import-export verso l’Urss e “Paesi fratelli” – a cui è conseguita una maxi-evasione fiscale ad opera dei poli finanziari del partito – nonché di finanziamenti, sostanzialmente in nero, sia direttamente da parte dell’Unione Sovietica sia tramite le cooperative rosse, molto attive con i Paesi dell’Est. Ma dove sono finite le inchieste a suo tempo promosse da alcune Procure, soprattutto quella di Venezia? Né può sfuggire che dalla struttura paramilitare facente capo al Pci, durata fino alla fine degli anni Sessanta, sia derivata una forma di contiguità, e anche di copertura per una lunga fase, con il terrorismo di sinistra, talché risulterebbe inspiegabile tale fenomeno, sicuramente il più conturbante della vita repubblicana, ove non si indaghi a fondo appunto sul braccio armato del Pci, sul rapporto di alcuni suoi componenti con le Brigate rosse, sulle culture e la tecniche di lotta dei gruppi di azione partigiana: Gap (Gruppi di azione patriottica), Sap (Squadre di azione patriottica). Ma anche su questo si è voluto stendere un pietoso velo!

In realtà, il “partito nuovo” togliattiano, neanche dopo la sua esclusione nel 1947 dalla coalizione governativa da parte di Alcide De Gasperi, smise di guardare al ripristino della collaborazione con la Democrazia Cristiana e i partiti del Cln (Comitato di liberazione nazionale) appunto in una visione/progetto di penetrazione profonda, con i caratteri di una vera e propria colonizzazione totalizzante, in tutti i gangli dello Stato e della società civile secondo i canoni della gramsciana “teoria dell’egemonia”, scivolata in una vera e propria forma di paranoia. L’apertura a sinistra negli anni 1962/63, nel quarto governo Fanfani e nel successivo governo Moro, non scontentò del tutto i comunisti, in quanto all’ala autonomista guidati da Pietro Nenni faceva ancora da contraltare l’ala così detta carrista, la quale brigava per continuare a tenere il partito in posizione di subordinazione nei confronti del Pci. All’ingresso dei socialisti nella coalizione  di governo, quindi, si opponeva tenacemente il segretario liberale Giovanni Malagodi – ciò che sin da allora avrebbe dato inizio ad un lungo ciclo di opposizione del Partito Liberale italiano al centrosinistra – in quanto, a suo avviso, l’apertura a sinistra, in quelle condizioni, avrebbe indebolito il campo delle forze democratiche e liberali nello scontro con il comunismo, rallentando in tal modo il processo di consolidamento e di maturazione del corso democratico, arduo nel contesto interno e internazionale. Ancorché l’ostilità del leader del Pli verso forze di governo affette da una sostanziale immaturità riformista potesse apparire di carattere essenzialmente ideologico e preconcetto, in realtà la sua era una visione esatta poiché quella stagione fu, infatti, prodromica al successivo passaggio, poco più di un decennio dopo, al compromesso storico e alla politica di “solidarietà nazionale”, che avrebbe comportato un rafforzamento elettorale del Pci e il definitivo allontanamento della Dc da posizioni non solo liberal-democratiche ma anche socialdemocratiche, rinvigorendo il massimalismo della sinistra del partito. Tant’è che successivamente, fagocitato dal Partito Comunista mimetizzato sotto altre vesti, suonerà anche l’ora della sua definitiva scomparsa dalla scena politica nazionale.

La politica della “solidarietà nazionale”, se da un lato sdoganava il Partito Comunista dalla conventio ad excludendum, esaltata da Berlinguer e avente come risultato l’elezione di Pietro Ingrao alla presidenza della Camera, dall’altra apriva “una autostrada” alla sua profonda penetrazione nella macchina dell’Amministrazione pubblica e all’occupazione di tutta l’arena del potere, per produrre sempre più potere al partito, ciò che spostava definitivamente il concetto di egemonia dal terreno culturale e dei rapporti di produzione a quello dello Stato, ossia del controllo politico dei suoi apparati. Cosicché il Pci finiva per affiancarsi alla Democrazia Cristiana come partito di Stato, dell’Amministrazione pubblica e dell’economia pubblica, complice di un clientelismo diventato manageriale, una fitta rete legata ai due partiti da una trama di interessi, scambi reciproci, protezioni e favori, una mostruosa “capacità di controllo” che non poteva non estendersi anche e soprattutto alla Magistratura. In essa la corrente di “Magistratura democratica” – largamente rappresentata nella “cupola” che tesseva la sua rete di governo delle procure e detentrice della maggioranza nell’ordine giudiziario – stava diventando un soggetto politico di prim’ordine, benché abbia potuto assumere un ruolo di protagonista nell’ambito della politica italiana solo più tardi, all’epoca di “Mani Pulite”. E, appunto, con “Magistratura democratica” il Pci aveva intrecciato solidi legami e, solo grazie alle Procure della Repubblica amiche di qualche ex magistrato diventato un importante dirigente del Partito comunista, questo potè sfuggire a qualsiasi condanna per i finanziamenti illeciti di cui disponeva, che provenivano, come innanzi già detto, dall’Urss e dalle cooperative rosse operanti nei Paesi comunisti. Insomma, una deriva giustizialista che, assolvendo il Pci da ogni colpa, mirava a mandarlo al governo facendo togliere di mezzo gli avversari, prima Bettino Craxi poi Silvio Berlusconi, cosicché i giudici di Milano, anziché colpire la corruzione amministrativa, hanno puntato a criminalizzare solo il passaggio di fondi dai bilanci delle imprese a quelle dei partiti. La questione comunista doveva essere risolta, dunque, per mano giudiziaria e, a tal fine, bisognava presentare l’avversario politico – la Dc, Craxi e Berlusconi – come “bande di delinquenti” e di “malaffare”, da processare in pubblico e nei tribunali attraverso le procure della Repubblica, resi luoghi di un turpe spettacolo da dare in pasto al popolo, soprattutto quello di sinistra, assetato di odio e di vendetta.

I processi, pertanto, risolvevano i problemi politici, il giudice (di sinistra) si sostituiva all’elettore, la sentenza del magistrato penale ai risultati elettorali: il tutto camuffato da “questione morale”, sollevata soprattutto da Berlinguer il quale, a quell’epoca, era fortemente impegnato sia sul piano internazionale nel progetto di “eurocomunismo” – che altro non era se non il velleitario tentativo da parte sua di sostituirsi ai francesi alla guida del comunismo occidentale, bocciato dallo stesso George Marchais e definito da Tito una eurocretinata – sia su quello interno nella strategia del “compromesso storico”, che mirava a distruggere la concorrenza socialista e scavalcare il Partito Socialista italiano. Ciò che poteva realizzarsi solo con una lotta senza quartiere ai governi di centro-sinistra e attaccando, personalmente Bettino Craxi, la cui memoria rimarrà poi impiccata al capestro di Tangentopoli.

Cosicché “Mani Pulite”, distruggendo letteralmente i due maggiori partiti che avevano governato fino ad allora, finiva per diventare l’esecutore legale della condanna a morte della Prima Repubblica e allestiva il cippo funerario di Craxi senza che, peraltro, si sia approdati alla “terra promessa” della Seconda Repubblica. Talché, come già osservato nel precedente scritto, dalle miserie della Prima Repubblica a quelle di una paranoica Seconda Repubblica il passo è stato veramente breve: già, mentre nella prima i finanziamenti privati non riconosciuti alimentavano il sistema politico, nella seconda il sistema politico utilizza i soldi pubblici per fini privati!

Nel tritacarne giustizialista, quindi, il craxismo perdeva i tratti di una offerta politica per assumere quelli di un “romanzo criminale”: il leader del Psi finiva nella “galleria degli orrori” dei becchini della Repubblica in nome di una tracotante pretesa di superiorità morale e intellettuale del Pci. Per cui, nelle mani di una Magistratura da esso “orientata”, la figura di Craxi non aveva scampo alcuno. Ma nella stessa macchina infernale del giustizialismo rosso finiva anche il berlusconismo poiché, come già il craxismo, veniva additato come un bubbone infetto da cui è afflitto un certo capitalismo maturo. Cosicché il vento liberale, qualificato tout court di destra, venne sic et simpliciter decifrato come una modernizzazione malata, segnata dal neoliberismo economico e dal rampantismo sociale.

Su siffatti presupposti, pertanto, tutte le battaglie dei comunisti, post-comunisti e paracomunisti, se fino a ieri sono state condotte soprattutto in nome dell’antiberlusconismo, oggi sono rozzamente manovrate dal Partito Democratico principalmente in nome dell’antisalvinismo. Insomma, regolare la propria “bussola politica” sull’addossamento della colpa a qualcuno o governare contro qualcuno, cullandosi nell’autocompiacimento della propria diversità, era diventato – e lo è ancora – il vero psicodramma della sinistra, che poi rappresenta un consistente pezzo del dramma di questo Paese. Nonostante abbia perso, dunque, ogni riferimento dottrinario e fattuale e non ancora guarita dal suo “infantilismo politico” essa, cioè la sinistra, veleggia nel suo incessante imbarazzo a rivedere la propria storia su cui continua a innestarsi, senza sostanziali soluzioni di continuità, la sua attuale identità riformista, una identità irrisolta nei suoi riferimenti ideali che si rispecchia in una penosa, schizofrenica dissociazione cognitiva a difesa di miti e simboli di una storia mai chiusa del tutto. Una identità imprigionata in una appartenenza sospesa, in cui il riformismo è ridotto a pura suggestione, ad una qualificazione di sé solo eulogica verso l’esterno e autopromozionale verso l’interno, una sorta di schermo utile a coprire una memoria essenzialmente di segno contrario.

Prova ne sia lo zelo con cui si è inteso celebrare, da ultimo, il centenario del Partito Comunista, nato dalla scissione di Livorno, avvalendosi peraltro anche di contributi pubblici, un partito la cui veritiera storia, come ha scritto Enzo Bettiza, “… non è roba da documenti, bensì da tragedia shakespeariana o da romanzo dostoevskiano, ovvero roba di vita e di morte, di sangue e di menzogna, di altitudini gelide e di abissi infernali”. E tutto questo di certo non può far parte di una lettura comune, vale a dire di una visione condivisa della storia repubblicana.


di Francesco Giannubilo