Il diritto alla felicità

Il 5 marzo, nell’aula magna Mario Arcelli dell’Università Luiss Guido Carli, si terrà un interessante incontro, promosso dalla Fondazione Guido Carli, di grande interesse per ogni buon liberale, sul tema: “Il diritto alla felicità, lectio magistralis a due voci sul futuro dell’etica”. È un bene che in Italia si cominci finalmente a parlare di “diritto alla felicità”, ma temiamo che se ne parli in maniera difforme rispetto all’accezione americana. Il diritto impresso nella Costituzione di indipendenza degli Stati Uniti è declinato come diritto di ricerca della felicità, con grandi implicazioni sulla libertà individuale di intrapresa economica. Il diritto di vivere la propria vita secondo il proprio modello di ricerca della felicità è inteso in primis come facultas agendi individuale e non come diritto a una prestazione altrui. In altri termini: quel diritto di si riferisce alla libertà di conseguire i mezzi per perseguire il fine della felicità.

In Italia tale versione del diritto alla felicità trova grandi ostacoli culturali e normativi. Gli ostacoli culturali nascono dalla sottovalutazione dell’ordine economico rispetto all’ordine etico-politico e dalla sacralizzazione dell’autorità pubblica personificata nello Stato, ambedue riconducibili, per vie diverse ma convergenti, all’idealismo hegeliano; gli ostacoli normativi sono sintetizzabili nello svilimento del “diritto di” in “interesse legittimo a”.

Procediamo con ordine. I fini che l’uomo persegue si traducono in valori o disvalori; in ogni caso hanno contenuto valoriale; mentre i mezzi necessari al raggiungimento dei fini non sono, ex se, espressivi di valore; sono neutri e sprovvisti di idealità. Cosicché la ricerca dei mezzi economici, avulsa dal fine ideale, gode di scarsa considerazione e può essere sottoposta a limitazioni gravose, senza che venga meno il “valore”. In verità la svalutazione del mezzo si ripercuote sul valore giacché, senza i mezzi necessari, l’uomo deve rinunciare anche al fine. La libertà di stampa sarebbe lettera morta, come ammoniva Milton Friedman, se tutte le rotative fossero in mano allo Stato. L’empirismo anglosassone, poco incline agli astrattismi, coglie la grande rilevanza dei beni economici nella vita degli uomini e ravvisa nella libertà di intrapresa economica, la base dei diritti di libertà individuale, su cui si può erigere la “felicità” o meglio la ricerca della felicità. Per converso, la cultura idealistica, che reifica i concetti ed è lontana dall’individualismo metodologico, assume i valori astratti come beni in sé, anzi gli unici beni per i quali valga la pena instaurare diritti.

Nella cultura idealistica, il bene di tutti ha un nume tutelare: lo Stato, che esercita la sua sovranità nell’interesse dei sudditi, ai quali concede e dispensa diritti e prestazioni “sociali”. In questa logica, proliferano “i diritti a” e si sviliscono “i diritti di”. L’individuo non deve badare a sé stesso e organizzare la sua personale ricerca della felicità, bensì deve confidare nella protezione dello Stato, cosicché il suo “diritto a” consiste meramente nel “diritto di chiedere” allo Stato quella determinata prestazione. Il suo diritto alla salute si esercita col richiedere allo Stato la prestazione medica e il diritto “alle pari opportunità” non si capisce bene cosa sia e come possa essere esercitato, ma approssimativamente si fa consistere, più che nella richiesta di un preciso atto amministrativo, in una generica petizione di uguaglianza di partenza, rivolta all’impersonalità dello Stato sovrano. A misura che l’individuo cede allo Stato, il suo diritto di fare (facultas agendi) viene sopravanzato dai suoi diritti a, sempre più fumosi, i quali in fin dei conti non sono altro che diritti di chiedere (la prestazione altrui).

Anche nei rapporti privatistici vigono diritti a, ma si atteggiano in modo molto diverso. Il diritto privatistico alla prestazione altrui è un diritto di credito, che riceve una protezione giuridica immediata e piena. Il giudice, in caso di controversia, dispone l’esecuzione coatta e il risarcimento del danno conseguente all’inadempimento del debitore. Nei rapporti con lo Stato, il cittadino che vanta un “diritto a” assume la veste di petulante e importuno “petitore”, che osa disturbare il manovratore. Egli non può invocare, innanzi al giudice ordinario, né l’esecuzione forzata, né il risarcimento del danno; può adire solo un giudice speciale, chiamato Tar, per l’annullamento dell’atto amministrativo. Se codesto importuno “petitore” si dolesse del fatto che la Pubblica amministrazione non abbia emanato alcun atto, il Tar, che riconoscesse il fondamento giuridico della sua “petizione”, non disporrebbe alcuna esecuzione forzata, né tanto meno il risarcimento del danno, ma si limiterebbe ad annullare il nulla. E dopo l’annullamento del nulla, la Pubblica amministrazione potrebbe impunemente emanare un atto, che prendesse il posto del nulla precedente, magari viziato da un’altra causa di illegittimità; e così all’infinito, fino alla nomina di un commissario ad acta che si prendesse finalmente la briga di emanare un atto amministrativo pienamente conforme alla legge. E ovviamente il suddito, nella veste di importuno “petitore”, non potrebbe ottenere alcun risarcimento del danno, per il tempo e le occasioni perdute e i rovesci economici direttamente subiti, giacché il suo “diritto a” consiste solamente e semplicemente in un diritto di chiedere. E, in verità, il suo diritto di chiedere è stato rispettato. Orbene questo strano “diritto”, chiamato dalla dottrina giuridica “interesse legittimo”, è l’espressione più cristallina della subordinazione del cittadino al Leviatano chiamato Stato, che dovrebbe far inorridire ogni buon liberale.

Il “diritto alla felicità” declinato come “diritto a” e non come “diritto di” rischia di degradare a interesse legittimo, in maniera non dissimile dal diritto di iniziativa economica, solennemente riconosciuto dall’articolo 41 della Costituzione (più bella del mondo). Il legislatore costituente ha riconosciuto che “l’iniziativa economica privata è libera”, tuttavia ciò non impedisce all’Amministrazione pubblica di ostacolarla (per avventura) illegittimamente, con atti o col “nulla”, e, al contempo, di non peritarsi di risarcire il danno. Insomma, siamo alla libertà di stampa, senza alcuna possibilità di comprare la rotativa necessaria per stampare. Da liberali, non vorremmo che il “diritto alla felicità” fosse declinato come mero interesse legittimo, piuttosto che come diritto individuale di fare, il cui illegittimo impedimento o turbamento da parte di chicchessia, anche da parte della Pubblica amministrazione, debba in ogni caso dar luogo al risarcimento pieno del danno cagionato.

Ed invero il titolo del convegno, per il fatto stesso di prefigurare implicazioni limitate al futuro dell’etica, non incidenti sull’ordinamento giuridico dei diritti di libertà, farebbe proprio pensare a una declinazione lontana dal modello americano.

Aggiornato il 24 febbraio 2021 alle ore 09:49