Guerra semiotica: l’arma vincente dei neo-socialdemocratici

A Hong Kong stanno togliendo di mezzo il monumento dedicato alla strage di Stato compiuta en plein air in piazza Tienanmen a Pechino nel 1989, che segnò il passaggio di consegne dall’Unione Sovietica collassata al nuovo “Impero del malecinese. Gli studenti di Hong Kong combattono ma sono isolati, privi di microfoni e di spazi liberi, come gli uiguri dello Xinjiang. Stanno peggio dei tibetani, che hanno almeno un Dalai Lama in grado di “combattere” alcune battaglie comunicazionali e di vincerle. Siamo nel 2021, non esistono più le classiche dittature fascio-comuniste ma rimane il lascito di Re Lear: la follia del potere, che però si è digitalizzato, è inafferrabile e socialdemocratico, cioè intoccabile. Ciò avviene perché le guerre economiche e il conflitto sociale e culturale si svolgono quasi esclusivamente nel campo semiotico, anche nei loro risvolti “reali”, come uno scontro di piazza.

Come i talebani che hanno distrutto le statue di Budda, Pechino cancella dalla sua colonia (ex colonia inglese) la “Colonna Infame” dello scultore danese Jens Galschiøt che ricordava i corpi degli studenti schiacciati dai carri armati del “loro” Stato. È un segno di debolezza, perché Xi Jinping opera con un atto da impero classico, privo di comunicazione e di cui non si capisce chi sia l’emittente (il “soft power”). È un’azione insulsa nei tempi della comunicazione continua. È lo stesso errore della destrapopulista” (ditemi se esiste al mondo un partito che non sia “populista”). In Occidente, dove i segni del vecchio potere sono cancellati dai media e dalle continue narrazioni della realtà, Tg e serie tv sono come i poemi cavallereschi per Don Chisciotte: le masse combattono contro mulini a vento trasformati in giganti dagli eserciti semiotici. Ognuno è indotto a seguire l’irrilevante, tutto ciò che è teatrale (anche i criminali curano le loro scenografie) ipnotico ed effimero. La produzione di segni è universale, ma sempre più priva di re e imperatori visibili: le major del cinema sono ancora a Hollywood ma in realtà il cinema è acentrico e apparentemente privo di catena di comando.

Anche la comunicazione politica è ovunque e da nessuna parte, anche quando leggiamo le news di un sito di gossip. Lo sapevate già? Sì, perché siete lettori accorti, ma qui siamo di fronte a un sistema di comunicazione orientato e organizzato, soprattutto nei media “neutrali e mainstream”. Se sfogliamo l’inserto Il Venerdì de La Repubblica, possiamo leggere una notizia sul tennis negli Stati Uniti, dove si dice che non ci sono più tennisti americani nelle alte posizioni di classifica Atp. Io trovo frammenti mRna di “antiamericanismo” in tutto l’articolo, soprattutto facendo caso al titolo: “Il declino dell’impero (del tennis) americano”. Sempre nel Venerdì dell’8 ottobre 2021, sette pagine prima dell’articolo sul tennis, troviamo una rubrica titolata “Pentole e Parole”, dove si parla della serie Mad Men, in cui “bevono tutti, a tutte le ore… Ora ci sono alternative salutiste, buone e consolanti”. Il titolo è “Non c’è più lo spirito dell’America anni ’50”, e io penso che l’antiamericanismo, che in Italia ha avuto tre declinazioni (fascista, papista e filo-sovietica), ora trova un nuovo appiglio nel – necessario? – nazionalismo europeo. Così si parla di un locale alcol-free vicino a piazza Duomo a Milano, molto politicamente e salutisticamente corretto di fronte agli yankee trinca Martini cocktail.

La questione è che incappiamo non solo nei cookies commerciali ma anche in “cookies” fatti di parole che magari in superficie dicono altro, per cui è difficile capire chi gestisce direzioni e flussi, soprattutto se le keyword sono ricoperte di messaggi tendenti al bene collettivo. Il problema è avere gli strumenti per decodificare, cosa impossibile soprattutto a livello di massa, ma anche a livello politico. Come diceva Paolo di Tarso “ciò che si vede proviene da ciò che non si vede”, e ogni messaggio – al di là delle parole esplicite – è segreto e codificato, come ho scoperto tempo fa in un corso universitario tenuto dal semiologo Paolo Fabbri, in cui si cercava di capire le modalità dello scontro tra Brigate Rosse e forze di polizia. Più banalmente, provate a camminare lungo una strada di città o una passeggiata a mare e fate caso a quanti cartelli il vostro Comune ha piazzato sui marciapiedi: ogni due metri ci sono antiestetici segnali stradali inutili che nessuno vede (l’eccesso di comunicazione è uguale a zero comunicazione), ma che hanno la funzione subliminale di segnalare la “presenza” di un potere che ha a cuore i cittadini (I care era lo slogan elettorale di Obama). I monopoli politico-economici reali oggi combattono con i meme e le parole, esattamente come gli imperi mediatici e ottengono migliori risultati con la persuasione inavvertita che con le bombe.

Il potere neo-socialdemocratico ha capito le nuove forme sociali, fonda il suo successo su questo know how, ed è grazie al controllo della discussione pubblica (e privata!) che i partiti progressisti hanno conquistato il potere reale con l’egemonia mediatica. È per questo vantaggio che il Partito Democratico vince anche quando perde le elezioni, mentre le destre (che non hanno contezza del nuovo sistema comunicazionale-sociale-economico) le perdono anche quando vincono. Avere l’egemonia nell’uso delle parole, dei dibattiti e delle parole d’ordine eruttate dalla stampa, allineata persino involontariamente, permette di avere il potere assoluto di Stalin o Adolf Hitler anche se si è un ministrello della Repubblica italiana. Berlusconiani o Salvinisti non hanno il possesso degli argomenti e della discussione e così parlano come l’innamorato della poesia di Paul Éluard: “Senza avere le parole per dirlo”.

In America come in Italia, e così sia

Cancellare i monumenti è da retrogradi: la Storia resta, anche se si fanno sparire i segni artistici che cercavano di eternarla nella pietra. Non a caso viviamo in una era in cui l’arte, se sopravvive, è effimera come una aurora boreale. La pop art l’aveva già capito con Andy Warhol e con David Bowie, che cantava “we can be heroes, just for one day”. Tuttavia, l’Italia è il Paese delle Belle Arti. Persino per gli attivisti della Cancel culture è difficile mettere i pannicelli alle opere di Michelangelo o Dante Alighieri. Il nostro rischio è un altro, quello di vivere cristallizzati come in un negozio di antiquariato o dentro un museo, custodi che ricevono turisti estasiati – per un istante – di trovarsi di fronte a un quadro di Raffaello. Questa è la situazione delle nostre città, mentre le zone balneari o di montagna tendono a essere gentrificate dal turismo sempre più, diventando luoghi della natura snaturati per sempre. Negli Stati Uniti è invece possibile distruggere monumenti quasi tutti privi di valenza artistica: i cancellatori cercano forse di emulare i romeni che buttavano giù la statua di Nicolae Ceausescu o i russi che distruggevano l’effigie di Lenin. Ma Abraham Lincoln non rappresenta più nessun potere e Cristoforo Colombo era un figlio dell’Europa alla ricerca di una nuova rotta per l’India. Perché allora distruggere i “segni” di vite comunque decisive?

La “Cancel culture” si sviluppa anche in altre forme nell’Occidente iper-regolamentato, in cui la perdita di libertà dei bambini dovrebbe farci riflettere sul nostro stile di vita senza diventare per questo dei ribelli. C’è uno smodato desiderio di scaricare l’aggressività, che trova la sua medicina nel ribellismo di piazza, oltre che nei social media e nella Cancel culture stradale e universitaria degli Stati Uniti. In Italia non abbiamo statue di Benito Mussolini da buttare giù (si cerca di sciogliere Forza Nuova ma come organizzazione, cioè come segno simbolico e non come cultura). Per questo motivo l’aggressività delle periferie fisiche e culturali si scarica attraverso un crescente teatro popolare di piazza fatto di cortei, no-vaxismi, no-Green pass, di atti esemplari contro l’Alta Velocità o contro le sedi di sindacati o di una banca. È un fenomeno diffuso in tutta l’Europa, basato sulla frustrazione di non riuscire a trovare nuove libertà e autonomia dalla iper-normazione della vita lavorativa e quotidiana. Un fenomeno che tocca i giovani e gli young-adult esclusi dalle autostrade digitali, culturali ed economiche che, non riuscendo a creare un nuovo mondo, tornano indietro alle “jacquerie” sessantottine coi No Tav o al No-vax biologico alla Rudolf Steiner.

Come rispondere al nuovo ribellismo, che è costituito in tutta Europa come il calcio, nella forma cioè di una valvola sociale di sfogo priva di prospettive? Il sistema europeo prevede la possibilità di “fare casino”, di spaccare vetrine e urlare cose indicibili. La neo-socialdemocrazia offre lasciapassare alle minoranze, a patto che restino minoranze, il che vale anche per gli Stati Uniti dove si cancellano i monumenti o le distinzioni sessuali secondo il movimento Lgbt. Sul piano dei diritti “formali” c’è tolleranza verso ogni cultura periferica. Tuttavia, l’iper-democrazia pone alti muri e severi limiti a qualsiasi maggioranza decisa a uscire dalla gabbia politica e a dare nuova forma alla democrazia, nel segno di un liberalismo che tenga conto dei cambiamenti in atto. Nel dominio semiotico del progressismo limitato e ingabbiato si è liberi solo restando in una gabbia dove ci si può muovere nella forma di una anarchia vaga che non costruisce ma distrugge, come uno Xi Jinping al contrario. Il modello sociale per le minoranze rumorose, quindi, è quello del calcio allo stadio, dove tutto è permesso a patto di non fare casino altrove. Tocca a un movimento post-liberale,  capace di gestire il transito nelle autostrade digitali, il compito di impostare i canoni di una nuova democrazia.

Intanto nella sede del Municipio di New York si concretizza l’ultima donchisciottesca cancellazione: lo spostamento della statua del presidente Thomas Jefferson dalla City Hall, questa volta a opera del sindaco Bill de Blasio. Mentre le demolizioni del passato continuano, chi è senza odio scagli il suo primo “non mi piace”.

Aggiornato il 23 ottobre 2021 alle ore 12:37