Fratelli, sapete come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace”. Questo brano è tratto dalla seconda lettera di San Paolo ai Tessalonicesi, scritta mentre si trovava a Corinto. Il rileggerla ci aiuta ad approfondire una riflessione contro l’immoralità, prima ancora che conto l’ingiustizia, di una riforma che ha prodotto guasti enormi in un Paese già in affanno come il nostro, oberato da un deficit di bilancio pari a 2.742 miliardi di euro allo scorso mese di settembre, con una ricaduta di immagine anche a livello internazionale.

Come si possono chiedere sostegni economici in ambito europeo, a fronte della dissipazione del denaro pubblico per pura e sciagurata demagogia? Possono le formiche di altri Paesi soccorrere le cicale nostrane? Parliamo – naturalmente – del famigerato “reddito di cittadinanza” o meglio di “nullafacenza”, dopo la cui sciagurata introduzione molti giovani e meno giovani hanno preferito trascinare le loro giornate in un mero fluire vegetativo, invece di assaporare il gusto pieno della vita, che consiste nel rendersi utili alla società con l’apporto del proprio lavoro. Come abbiamo a suo tempo già ricordato da queste pagine, questo reddito parassitario ha finito col favorire le prestazioni in nero, dato che il lavoratore non può denunziare il suo datore di lavoro (che ha risparmiato sugli oneri contributivi), in quanto incorrerebbe – a sua volta – nel reato di truffa ai danni dello Stato, per l’indebita percezione del sussidio statale, mentre in realtà lavora nascostamente. Le prestazioni occulte sfasano dunque le dinamiche del mercato del lavoro, creando disoccupazione per coloro che vorrebbero poter operare alla luce del sole, svantaggiati rispetto ai “più economici” concorrenti “in nero”.

Il tutto contro i principi fondanti della nostra Repubblica, la quale – per coloro che lo avessero dimenticato – ha come proprio elemento identitario il principio posto in apertura della Costituzione stessa, che all’articolo 1 testualmente recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Pur tuttavia, nel mondo del lavoro esistono realtà assai disomogenee, il qual fenomeno appare maggiormente eclatante quando il datore di lavoro è proprio lo Stato. In Italia esiste infatti una macroscopica divaricazione tra coloro che hanno il cosiddetto “posto fisso”, nel comparto pubblico, e tutte le altre categorie lavorative, non solo sotto il profilo della tranquillità psicologica derivante dalla certezza del posto di lavoro, ma anche da una serie di guarentigie generalmente assenti nei rapporti di lavoro privati, seppure maggiormente tutelati in seguito alla riforma del Jobs Act. Quando si legge – ad esempio – di inquadramento organico dei precari (prevalentemente nella scuola), non si può che gioire per un provvedimento perequativo tra persone che, a parità di mansioni, non fruivano delle stesse tutele.

Esiste peraltro il fenomeno inverso, cioè la progressiva “precarizzazione” di funzioni in precedenza blindate dalla corazza del pubblico impiego, che vengono a mano a mano demandate a personale esterno dipendente da ditte private (cuochi, autisti, commessi, infermieri, vigilanza), che va a rimpiazzare quello in pianta organica. Come mai? Perché coloro che operano alle dipendenze di datori di lavoro privati, sono “meno cagionevoli” di salute e si assentano assai meno frequentemente dei colleghi pubblici dipendenti, i quali possono viceversa fruire di una serie di “congedi-offerte speciali”, che uno Stato assai generoso offre loro, con il conseguente boomerang dell’aumento vertiginoso del relativo costo del lavoro. Al nuovo Parlamento compete il compito di promuovere delle riforme legislative atte alla stabilizzazione del lavoro, sia pubblico che privato; ma al contempo di tagliare la giungla dei permessi a vario titolo retribuiti, che creano scarsa produttività ed iniqua sperequazione tra i pubblici ed i privati dipendenti. L’etica del dovere deve essere speculare alla giusta tutela dei diritti.

Aggiornato il 22 novembre 2022 alle ore 09:13