Una perdurante sindrome globale

Qualche giorno fa in un talk show del mattino uno studente ha rilasciato dichiarazioni che hanno fatto venire i brividi a chi ascoltava inclusa la stessa intervistatrice la quale, del resto, non ha avuto alcun successo nel tentare di portare il giovane diciannovenne a più miti consigli. L’argomento era la questione del detenuto Alfredo Cospito, subito allargata con pesanti accuse, ovviamente, alla politica, al regime e persino nei confronti del presidente della Repubblica. Questo episodio di apparente banalità violenta e pseudo-ideologica ripropone ancora una volta un quesito più generale che ci riporta ai movimenti del Sessantotto. La loro interpretazione sociologica, prevalente allora come ora, faceva ampio ed esclusivo riferimento a quello che, con un’espressione generica e in certa misura edulcorata, veniva e viene definito il disagio giovanile dovuto alla struttura della società occidentale nel suo insieme. Questa, tutta protesa allo sviluppo economico e a quello che la Scuola di Francoforte, Herbert Marcuse in testa, chiamava l’occultamento dei rapporti di potere attraverso l’innalzamento del benessere delle classi subalterne, generava una nuova forma di alienazione e introduceva gli individui in quelli che Paul Goodman definiva i labirinti privi di senso della società opulenta. Solo la protesta dei giovani, non ancora coinvolti e integrati nel sistema, poteva quindi porvi rimedio attraverso ciò che Giorgio Bocca, nel 1967, indicava come un rinnovato e “prepotente bisogno di ideologia” collocabile, va da sé, a sinistra.

Va però immediatamente sottolineato che i movimenti che si generarono alla fine degli anni Sessanta non avevano nulla da spartire con quelli che hanno accompagnato la storia, per esempio quella del Risorgimento italiano con il battaglione degli universitari di Pisa che nel 1848 combatterono a Curtatone, né con quella dei giovani di Praga che si difendevano dai carri armati sovietici in nome del “socialismo dal volto umano” o con la protesta di quelli che, oggi, rischiano la vita lottando contro il brutale totalitarismo in Iran. Il Sessantotto, prima che evolvesse in terrorismo, era fondamentalmente un fenomeno pseudo-intellettuale, fiancheggiato e adulato da più o meno vaste porzioni del mondo intellettuale, diciamo così, ufficiale, accademico e non. Esso, d’altra parte, non ha affatto contagiato l’intera generazione giovanile di allora ma, sicuramente, ha agito come se ne fosse l’espressione, millantando un bisogno di ideologia generale ma che, in realtà, in quella chiave apparteneva a pochi.

E qui veniamo ad una interpretazione anomala, fuori dal coro. Quali che fossero le ragioni locali della contestazione, in qualche caso condivisibili ma generalmente mistificatrici della realtà nel suo insieme, sta di fatto che ciò che ha serpeggiato per anni, soprattutto in Europa, era una pretesa analisi socio-culturale e socio-economica dalle caratteristiche decisamente globali. In altre parole, mentre tradizionalmente la ribellione giovanile si è caratterizzata in varie forme e misure ma invariabilmente per questioni circostanziate e, appunto, locali, in termini nazionali o regionali, nel sessantotto si è fatta largo una protesta globale dalla fisionomia astratta, verbosa, quasi onirica e in frenetica adorazione del mito, per un giovane attraente per definizione, della trasgressione. Ma cosa spiega la sua diffusione? Perché la sua rapida migrazione dalla Freie Universität di Berlino alla Columbia University, dalla Sorbona a Trento? La risposta non può che trovarsi nella esplosione massiccia dei mezzi di comunicazione di massa il cui avvento e la cui crescente diffusione hanno prodotto un’amplificazione di portata tellurica finendo per agire come feedback positivo su notevoli quantità di giovani particolarmente predisposti, per ragioni di indole individuale o sociale, ad inseguire ambizioni protagonistiche e di orgoglioso ribaltamento di ciò veniva chiamato l’esistente.

Così, il classico e perenne conflitto intergenerazionale, che ha sempre in varia misura contrapposto i giovani, fra le mura domestiche, con la loro dogmaticità semplificatrice e romantica, agli adulti giudicati poveri di spirito, ha messo le ali e si è trasformato in una pseudo-ideologia internazionale che non ammetteva alternative: così noi vediamo il mondo e così è. La sua diffusione, agevolata da sussiegose e spesso interessate, dotte interpretazioni sociologiche e persino da lavori letterari e musicali, ha poi rafforzato in chi se ne faceva portatore la persuasione del proprio essere nel giusto, dall’analisi della società intera ai modelli di Stato, di economia, di diritto e di educazione che avrebbero risolto tutti i problemi collettivi.

Il Sessantotto, in particolare la sua diffusione non generale ma ampia e chiassosa, non ha certamente costituito un salto darwiniano nel senso che sarebbe francamente improponibile l’idea che, improvvisamente, sia emersa una nuova specie di uomo e, di conseguenza, di cultura antropologica in grado di indicare finalmente all’umanità la rotta migliore da seguire previa la demolizione delle istituzioni esistenti. Più banalmente, l’egocentrismo giovanile con la sua carica idealmente rivoluzionaria, ma anche schiettamente dogmatica, benché effimera e transeunte, si è provvisoriamente consolidato grazie, ceteris paribus, all’insperato supporto esterno dei mass media e del loro ruolo, magari involontario, di pusher oggettivi della trasgressione. Il dogmatismo dello studente di cui sopra non deve dunque stupire perché ha radici decennali, dal Sessantotto alla “Pantera” del 1990. A stupire, oggi come sessant’anni fa, è semmai la rinnovata attitudine di non pochi adulti ad assumere l’inveterato, pensoso atteggiamento di chi si chiede seriamente se e quali siano le “cause profonde” di un “disagio giovanile” che si rinnova continuamente per poi, tuttavia, sparire con l’età adulta di fronte, non raramente, a problemi davvero importanti che meritano davvero attenzione da parte di tutti e in particolare della politica.

Aggiornato il 07 febbraio 2023 alle ore 09:36