Zona di libero scambio euromediterranea: migrazione, prosperità, stabilità

giovedì 16 marzo 2023


La migrazione dei popoli è una delle costanti dell’umanità: dagli indoeuropei, ai vichinghi, ai normanni, ai goti, ai longobardi, passando per i greci, i troiani di Enea e gli ebrei di Mosè. Da sempre gli uomini si spostano dai luoghi di origine per varie ragioni (migliorare la propria condizione di vita, guerre da muovere o da cui scappare, commercio, epidemie, siccità, curiosità, sete di ricchezze, persecuzioni e altro ancora). Proprio per questo diventa velleitario pensare di arginare la migrazione. È un fiume in piena che tracima con regolarità, portando con sé grandi lutti tanto che da decenni l’opinione pubblica si è abituata e anche assuefatta alle ripetute tragedie della disperazione. Il tutto poi, come è naturale che avvenga in una liberaldemocrazia, è diventato materia di scontro politico tra chi sostiene che quella verso le coste italiane sia un’invasione da fermare in ogni modo, anche proponendo misure palesemente impossibili da realizzare come il blocco navale o introducendo nuovi reati difficilmente perseguibili in campo internazionale come quello previsto per gli scafisti e chi dall’altro lato propone la politica dei porti aperti, quella del “a noi servono gli immigrati per i lavori più umili, ringiovaniscono la nostra popolazione e ci pagano le pensioni”.

Siamo in quest’ultimo caso alla mercificazione delle persone, che vengono inquadrati come “mezzi di produzione” e che peraltro sentendosi giudicati così difficilmente si integrano dal punto di vista culturale e ahimè religioso, a causa del radicalismo islamico che diventa per loro motivo di identità e legame con la propria terra di provenienza. Tutto ciò mal si concilia con il modo di vivere occidentale fatto di pari diritti tra uomini e donne di ogni status, di ogni genere di libertà da quella religiosa a quella di insegnamento ed educazione a quella sessuale. Anche la vulgata della notte demografica italiana risolvibile con l’immigrazione cozza con il fatto che poi i nuovi italiani appena si integrano qui, acquisendo modi e costumi nostri, fanno lo stesso numero di figli degli autoctoni, perché in una società avanzata, industriale e mercantile la progenie non è più percepita come una “proprietà” utile né un mezzo per il sostentamento della famiglia come invece avviene in una società tribale e pre-tecnologica.

Nella sostanza tutte e due le fazioni in campo sembrerebbe che non abbiano dimostrato nel tempo l’intenzione di voler risolvere il problema della immigrazione incontrollata, forse perché ad ambedue porta un consenso elettorale facile da conquistare. Sia il governo di centrodestra che la minoranza di centrosinistra e 5 stelle concordano però su un punto: invocare a sproposito l’Unione europea. La maggioranza di centrodestra perché vorrebbe una redistribuzione dei migranti proporzionale ai territori e alla popolazione degli Stati nazionali. La minoranza giallorossa, invece, per chiedere un impegno comunitario per fare sbarcare gli immigrati nel più vicino porto europeo e poi portarli nei centri di accoglienza e vedere solo dopo che farne. Sostanzialmente due non soluzioni. Detto questo ambedue dimenticano che c’è comunque un limite fisico al numero di persone ricevibili, sia nel primo che nel secondo caso.

E quindi che fare? Governare il fenomeno, inserendolo in una visione più ampia del problema: quello dello sviluppo sostenibile almeno del continente africano. Una prospettiva non nuova ma purtroppo ancora attuale. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ma anche il presidente del Senato Ignazio La Russa ricorderanno che già nel 1967 Pino Romualdi, presidente del Movimento sociale italiano, disse in Parlamento: “Vi sono dal Mar Rosso al Mar Mediterraneo circa 80-90 milioni di arabi con i quali noi abbiamo oggi e avremo domani degli interessi, dalla cui vita e dalle cui condizioni di sviluppo né l’Italia né gli altri Stati dell’Europa possono prescindere”. In questo modo pose da destra la questione del rapporto culturale ed economico con i popoli rivieraschi. La politica italiana purtroppo, ma anche quella europea, ha fatto fin troppo finta di non capire quale fosse il vero nodo della questione. E così le nazioni occidentali hanno continuato a girare intorno al tavolo scambiandosi le responsabilità e il posto a sedere senza mai ribaltarlo definitivamente.

E dire che una possibile soluzione, forse non definitiva e nemmeno a breve termine, si era intravista già con il cosiddetto processo di Barcellona, conosciuto anche come “Partenariato euromediterraneo”. Questo accordo fu avviato dall’Unione europea, che all’epoca contava 15 Stati membri, con 12 Stati non comunitari durante la conferenza che si tenne dal 27 novembre al 28 novembre 1995 in Spagna. L’incontro fu presieduto dall’allora ministro degli Esteri iberico Javier Solana che sosteneva che gli Stati partecipanti avrebbero potuto aprire una nuova fase di collaborazione e chiarificazione delle incomprensioni che avevano determinato i grandi conflitti locali. È interessante notare come sia Ehud Barak che Yasser Arafat espressero il loro apprezzamento nei confronti di Solana. E il primo affermò, citando il profeta Isaia, che “i presenti avevano mutato le loro spade in vomeri e che Israele si era così riunita al club europeo”. E anche la Libia di Muammar Gheddafi, che in un primo momento aveva giudicato l’iniziativa come neocoloniale, nel 2000 ne sottoscrisse gli obiettivi.

Tutto questo porterà successivamente alla nascita della Zona di libero scambio euromediterranea o Fta Euromed tra l’Unione europea e i Paesi che si affacciano sulle sponde meridionali del Mar Mediterraneo, quasi tutti membri della Lega araba, con alcuni obiettivi ben delineati e molto condivisibili. Promuovere una politica di sicurezza e stabilità. Favorire lo sviluppo economico di ciascuno dei partner. Animare uno scambio culturale fra le rispettive società incentivando il rispetto delle reciproche identità. Era però l’Europa del cristiano-democratico di ispirazione liberalconservatrice Helmut Kohl, cancelliere della Repubblica federale tedesca; di Jacques Chirac, leader del centrodestra francese e presidente della Francia; del conservatore John Major capo del governo di Sua Maestà britannica; ma anche di Lamberto Dini, presidente del Consiglio italiano, sostenuto anche dalla Lega di Umberto Bossi. Tutto un altro mondo rispetto a oggi.

Attualmente questa evoluzione di rapporti politici tra europei e africani sembra arenato più che ammarato sugli accordi del 2011 con la “Convenzione regionale sulle regole di origine preferenziali pan-euro-mediterranee”. In ogni caso, nessuno ne parla più, anzi è come se si volesse tornare indietro. Purtroppo siamo entrati da un decennio in uno stadio dannatamente involutivo. Non c’è la capacità, sia da destra e ancor peggio dalla sinistra, di cogliere le grandi opportunità che si presentano sotto il nostro naso con l’attuale situazione internazionale nel Mediterraneo. Certo il mondo in questi decenni è cambiato, anzi peggiorato, infatti: la destabilizzazione della Libia, gettata nel caos orchestrato dall’Occidente “democratico” anche con il concorso dell’Italia di allora (tutti inclusi), le cosiddette primavere arabe che hanno sconvolto l’area nordafricana, gli scontri mai sopiti tra israeliani e palestinesi, la guerra in Siria, la deriva autoritaria in Turchia, e in ultimo le tensioni con la Russia hanno arrestato il processo di integrazione tra i Paesi europei con quelli rivieraschi, con il risultato di avere accentuato il flusso di persone disperate verso le nostre coste continentali.

È stata un’occasione mancata. Perché la zona di libero scambio avrebbe permesso non solo la libera circolazione di merci, servizi e capitali tra l’Europa e l’Africa, ma se fosse stata perseguita fino in fondo anche quella di uomini e idee, costituendo una vasta area in cui lo sviluppo e la crescita sarebbero stati la cifra politica su cui intessere rapporti diplomatici imperniati sulla stabilità dell’intera regione euromediterranea con un evidente “dividendo” per tutti: europei e africani. E con il raddoppio del Canale di Suez del 2015 si sarebbe facilitato il commercio ancora di più con quel Oriente di cui oggi abbiamo così tanta paura. Ora se il Vecchio continente vuole veramente mettere fine alla tratta degli uomini e all’immigrazione clandestina, con in testa Italia, una delle vie è la riapertura delle trattative per completare il processo di Barcellona e di fare dell’area euromediterranea un’unica frontiera di sviluppo, un’autentica zona libera per lo scambio che rimane l’unica maniera per incrementare la ricchezza delle nazioni.

Ma se invece si preferirà rimanere legati all’idea che la frontiera sud dell’Europa va difesa da “un’invasione”, vera o presunta, allora dovremo prepararci ad altre tragedie del mare e ai crescenti sentimenti di ostilità dei nostri vicini del Maghreb, che ricordiamo facevano parte dell’Impero Romano e che diedero anche i natali ad alcuni dei Cesari come i Severi, il cui capostipite Settimio Severo era nato a Leptis Magna, una città sita a circa 130 chilometri a est di Oea, l’odierna Tripoli. Fu proprio un suo successore e figlio Antonino Caracalla a concedere con la Constitutio Antoniniana la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero. Una decisione di “interessata” lungimiranza ma nello stesso tempo rese un grande servizio a tutta Roma, tant’è che Claudio Rutilio Namaziano scrive nel De reditu suo: “Delle diverse genti unica patria hai fatto; un bene è stato, pei popoli senza legge, il tuo dominio. E, offrendo ai vinti d’unirsi nel tuo diritto, tu del mondo hai fatto l’Urbe.”

Se investissimo su questa opportunità faremmo non solo circolare le persone e le merci liberamente ma anche le idee di libertà e democrazia di cui andiamo tanto fieri. L’unica maniera di esportarle non sono le armi, pur potenti di cui disponiamo ma che hanno lasciato solo acrimonia verso di noi in giro per il mondo, ma le gambe degli uomini, che oggi vogliono venire a vivere qui in quello che loro immaginano come un “Eldorado”, ma che domani potrebbero anche costruirselo in patria con il supporto delle nazioni più avanzate. E se poi le nostre convinzioni sul governo del diritto e sull’autodeterminazione penetrassero anche nell’altra sponda del “Mare nostrum”, come fu per il nuovo mondo (l’America) con la colonizzazione europea, con il tempo potrebbe diventare anche la stessa Africa una nuova terra promessa e la migrazione diverrebbe per noi come per loro una grande opportunità di miglioramento, crescita, stabilità e pace. Questa potrebbe essere la più grande impresa che l’Europa dovrebbe apprestarsi a operare: allargare senza conflitto i propri confini culturali a tutto il Mediterraneo, culla di civiltà e di umanità, a cui guardare come un unico grande foro.


di Antonino Sala