Proposta di sostituire le Regioni ordinarie con tre Macroregioni

L’autonomia differenziata entrò a far parte della Costituzione in vigore dal 1° gennaio 1948. Ciò avvenne per validissimi motivi, non per capriccio. Si trattava di tutelare minoranze linguistiche, come i francesi della Valle d’Aosta, o i tedeschi dell’Alto Adige. Nel caso del Friuli-Venezia Giulia, ultima Regione a Statuto speciale istituita in ordine di tempo, si trattava di meglio garantire pacifici rapporti con gli sloveni (a Gorizia), con i croati (a Trieste) e gli Slavi in genere. Il tutto in conformità a trattati internazionali.

Le altre due Regioni ad autonomia differenziata previste dai Padri costituenti sono le nostre grandi isole: Sicilia e Sardegna. L’insularità costituisce già una condizione particolare; non soltanto per le distanze geografiche. Nel caso della Sicilia, la specialità discende da una storia ricchissima, che vide una parte dell’isola dominata dai Punici (Cartaginesi), mentre nella parte orientale dominavano gli antichi Greci (in particolare, a Siracusa). Nel 1130 fu riconosciuta alla Sicilia la dignità di Regno. Primo re fu il nobile normanno Ruggero II. Tutti i possedimenti normanni nell’Italia Meridionale, in Calabria, in Puglia, in Campania (inclusa Napoli), allora erano compresi nel Regno di Sicilia.

Dopo il Congresso di Vienna del 1815, Ferdinando I di Borbone, riportato sul trono, pensò di semplificare la realtà istituzionale: non più due autonomi regni di Napoli e Sicilia, retti da un unico sovrano in virtù di una unione personale, ma un unico Stato delle Due Sicilie. Una parte rilevante dell’aristocrazia e della classe dirigente isolane non perdonarono mai ai Borbone di Napoli quel declassamento. Non si spiegano altrimenti gli eventi del 1848-1849 e, soprattutto, l’esito della spedizione dei mille, guidati da Giuseppe Garibaldi, nel 1860. Dopo lo sbarco nell’isola degli anglo-americani, nel 1943, il mito della specialità della Sicilia alimentò il fenomeno del Separatismo. I nostri Padri costituenti valutarono tutti quei precedenti storici e si convinsero che, per convivere in pace, servisse il riconoscimento di un regime di speciale autonomia. Fu così che la Sicilia poté eleggere la propria Assemblea regionale già nel 1947, ossia prima che si tenessero le prime elezioni del Parlamento repubblicano.

Dopo aver concluso il proprio settennato di Presidente della Repubblica (1948-1955), Luigi Einaudi, economista ed intellettuale liberale, pubblicò il libro “Prediche inutili”. Comprendeva il saggio titolato “Che cosa resterebbe allo Stato?” dove Einaudi dimostrava che ciò che era stato concesso alle Regioni ad autonomia differenziata non era estensibile alla totalità delle regioni.

Altrimenti, sarebbero venute meno le risorse finanziarie necessarie per fare funzionare lo Stato italiano.

Il principio costituzionale dell’equilibrio fra entrate e spese nel bilancio dello Stato, affermato dall’articolo 81 della Costituzione, come riformulato dalla legge costituzionale del 20 aprile 2012, numero 1, non viene tenuto nella dovuta considerazione dagli odierni autonomisti. Non si dovrebbe dimenticare che ci sono rilevanti spese il cui onore ricade comunque sul bilancio dello Stato italiano unitario, indipendentemente dalla quantità delle entrate riscosse anno per anno. Di conseguenza, è sbagliato determinare le risorse di ogni Regione con il criterio della compartecipazione al gettito fiscale, come se si trattasse di una cifra che resta costante. Faccio alcuni esempi. Lo Stato unitario deve farsi carico, tra l’altro, di dare copertura finanziaria alla spesa pubblica per i seguenti interventi:

1) Spese per il funzionamento dello Stato-apparato (Magistratura, ordinaria, amministrativa e contabile, Arma dei carabinieri e altre Forze armate, Forze dell’ordine, strutture logistiche quali le caserme, armamenti, Istituti di detenzione, Capitanerie di porto, rappresentanze diplomatiche e consolari dell’Italia all’estero, interventi di cooperazione internazionale con Paesi terzi, in particolare quelli in via di sviluppo.

2) Servizio del debito pubblico. Uno Stato molto indebitato, quale l’Italia, ha necessità di emettere periodicamente titoli del debito pubblico (Bot, eccetera), affinché siano acquistati sia nei mercati finanziari internazionali, sia da risparmiatori italiani. In ciascun esercizio finanziario, lo Stato deve stanziare somme per restituire ai creditori, internazionali ed interni, quanto ha ottenuto in prestito, con la maggiorazione degli interessi, a suo tempo concordati. Qualora lo Stato trascurasse tale adempimento, nessuno sarebbe più disposto a concedergli denaro a credito.

3) Spese per il sistema previdenziale, cioè per il pagamento delle pensioni maturate dai lavoratori, al termine del loro ciclo lavorativo.

4) Spese per interventi cosiddetti assistenziali, ossia finalizzati a rinsaldare la coesione sociale; nei Paesi anglosassoni si parla di welfare state.

Si potrebbe continuare, con un lunghissimo elenco.

L’articolo 116 della Costituzione è stato purtroppo modificato dalla riforma costituzionale del Titolo V, nel 2001. Quanti erano gelosi delle poche Regioni a statuto speciale, hanno previsto un meccanismo che consente anche a Regioni ordinarie di avere forme e condizioni particolari di autonomia. La logica è semplice: si concede alle Regioni ordinarie interessate di attivare ulteriori materie in cui avrebbero competenza. Alle accresciute competenze corrisponderebbero ulteriori risorse finanziarie, tra quelle riscosse nel territorio regionale, sottraendole contestualmente allo Stato. La procedura di cui all’articolo 116, terzo comma, per fortuna finora non si è mai completata con successo. Richiede l’iniziativa di ogni Regione ordinaria interessata, sentiti i propri enti locali. Nel caso del Veneto e della Lombardia, le rispettive popolazioni si sono dichiarate d’accordo in appositi Referendum consultivi. Il che non significa molto: alla domanda se si vuole che le tasse pagate dai contribuenti restino, quanto più possibile, nel loro territorio regionale, tutti risponderebbero affermativamente. La procedura prevede poi una apposita intesa fra lo Stato e la Regione interessata. Di questo si è occupato il ministro Roberto Calderoli, parlamentare di antica esperienza. Il ministro ha pensato di tranquillizzare l’opinione pubblica nazionale, assicurando che si garantirà che, su tutto il territorio nazionale, siano rispettati i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”. Come dire che il Meridione, in ritardo di sviluppo, non sarà ulteriormente penalizzato da un favore fatto alle più ricche regioni del Nord. Sarò malpensante, ma la rassicurazione non mi rassicura. Il ministro non ha inventato alcunché: la formula dei livelli essenziali delle prestazioni è affermata nella Costituzione dal 2001. Si veda l’articolo 117, secondo comma, lettera m), laddove si elencano le materie in cui lo Stato ha potestà legislativa. Facciamo l’esempio della tutela della salute, materia di legislazione concorrente, che finora ha assorbito la stragrande maggioranza delle risorse finanziarie delle quali le singole Regioni ordinarie dispongono. La disposizione costituzionale, vigente dal 2001, ha forse impedito che la qualità e l’efficacia delle prestazioni nella sanità variasse notevolmente da regione a regione?

Per completare la procedura di cui all’articolo 116, serve una legge approvata da entrambe le Camere, a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna. Si sentono dichiarazioni minacciose, in particolare dal presidente della Regione Veneto: si minaccia la crisi del Governo Meloni qualora la legge sull’autonomia differenziata non venisse approvata. Qualche voto, però, quel governo lo perderebbe anche se la medesima legge venisse approvata. Il governo in carica è impegnato su molteplici fronti e, secondo me, sarebbe un atto di irresponsabilità farlo cadere.

Questo mese di maggio 2023 è stato funestato dagli eventi calamitosi che hanno riguardato l’Emilia-Romagna: le province di Forlì-Cesena (con Faenza), Rimini, Ravenna (con Lugo di Romagna), la stessa Bologna. Piogge di intensità eccezionale fanno esondare fiumi e corsi d’acqua, ma di questo non ci si può meravigliare più di tanto. Ci si meraviglia piuttosto della palese inadeguatezza delle istituzioni pubbliche (Regioni, Comuni, eccetera). Nella pratica amministrativa, la teoria conta meno di zero. Si deve guardare esclusivamente ai risultati. Da noi si considera virtuosa una regione se si è dotata di un proprio piano regionale delle acque, oppure se ha approvato una legge regionale per limitare il consumo di suolo (la cementificazione). Le alluvioni si fanno un baffo di questi piani e di queste leggi. Prima di cambiare argomento, tengo ad esprimere il mio totale apprezzamento nei confronti di quei tanti giovani che, come volontari, sono accorsi in Romagna per dare un aiuto materiale, per rimuovere l’acqua e il fango dai luoghi alluvionati. Rappresentano il meglio della nazione italiana. Ho ascoltato l’interessante punto di vista di un docente di ingegneria idraulica: come azione preventiva, bisognerebbe costruire, accanto ai fiumi e torrenti, vasche di espansione, invasi, nuovi canali, in modo da indirizzarvi l’acqua piovana in eccesso. Si deve passare dalla logica attuale, in cui eccezionalmente la Regione bandisce appalti di opere o di servizi, ad un diverso ordinamento, in cui la Regione operi davvero come un ente di programmazione. Strutture tecniche permanenti, dotate delle migliori professionalità, dovrebbero individuare tutte le opere di ingegneria idraulica necessarie, incluse la manutenzione delle dighe esistenti e la costruzione di nuove dighe. Dovrebbero essere elaborati piani di attuazione; cosicché mese per mese sia chiaro quali progressi si fanno; oppure, per responsabilità di chi, non si fanno. Tutto questo non è alla portata di piccole regioni, come il Molise (con tutto il rispetto). Non è neanche alla portata di una regione di medie dimensioni, quale appunto l’Emilia-Romagna. Un’esperienza ormai più che cinquantennale attesta il fallimento delle Regioni ordinarie, istituite nel 1970. Sono enti buoni soltanto a produrre spesa pubblica; infatti, proprio a partire dal 1970, il rapporto fra debito pubblico dello Stato e Prodotto interno lordo (Pil) è nettamente peggiorato. Ricordiamoci di Giovanni Malagodi, segretario del Partito liberale, e della sua lunga azione contro le Regioni ordinarie. Ciò non significa teorizzare che si debba accentrare ogni compito nello Stato: anche le burocrazie ministeriali danno spesso prove di inefficienza. Il problema è quello di far corrispondere la competenza territoriale regionale con aree vaste, il più possibile omogenee dal punto di vista dei precedenti storici e della fisionomia culturale.

Una riforma costituzionale è una cosa estremamente seria: richiederebbe una parziale riscrittura di quasi tutti gli articoli del Titolo V. Cosa che non si può fare in un articolo di giornale. Il Titolo V, riformato nel 2001, è un disastro. Si sappia, intanto, che il legislatore costituzionale del 2001 non è riuscito a distinguere in modo chiaro quali materie rientrino nella competenza legislativa esclusiva dello Stato (articolo 117, secondo comma) e quali siano di competenza concorrente, fra Stato e Regioni (terzo comma del medesimo articolo 117). Tale situazione ha provocato un contenzioso che la Corte costituzionale è stata chiamata a dirimere.

Come ripartire, poi, la competenza fra i diversi livelli di governo territoriale? Come quantificare il fabbisogno di personale dipendente? Il legislatore costituzionale del 2001 (con un indirizzo politico di centrosinistra) affermò, al riguardo, il principio di sussidiarietà. Non si trattava di una novità perché il modello di riferimento era quello dei reciproci rapporti fra l’Unione europea e i suoi Stati membri. Il principio di sussidiarietà si traduce nel fatto che le funzioni amministrative siano attribuite all’ente territoriale più vicino ai cittadini amministrati. Ossia, di regola, al Comune (articolo 118, primo comma). Qualora tale primo livello risulti strutturalmente inadeguato, si passa all’ente territoriale di livello immediatamente superiore; se pure questo fosse inadeguato, si continuerebbe a salire, di livello in livello.

La predetta concezione è pura teoria, aria fritta. I Comuni italiani sono circa 8.100. Tra questi, risultava chiaramente nel 2001, oltre il 72 per cento ha una popolazione residente inferiore a 5mila abitanti. Ciò significa che il Comune, tanto popolare nella realtà istituzionale italiana, rappresenta, effettivamente, una istituzione benemerita e virtuosa quale elemento di conoscenza delle caratteristiche di un dato territorio e della comunità sociale che vi abita. Nella stragrande maggioranza dei casi, il medesimo Comune è, però, strutturalmente inadeguato quale organo di governo, di gestione, del territorio. Qualora, ad esempio, si trattasse di bandire gare d’appalto di opere o di servizi, ci si accorgerebbe che la maggior parte dei Comuni non dispone di propri uffici tecnici; ove esistenti, si vedrebbe la loro inadeguatezza in termini di pianta organica e di professionalità. Non dovrebbe essere difficile da comprendere: l’azione amministrativa può essere efficiente, efficace, non sprecona, a condizione che l’Ente al quale viene riferita abbia una dimensione non soltanto sufficiente, ma ottimale. Dimensione tanto demografica, quanto territoriale.

L’articolo 115 della Costituzione è stato abrogato dalla legge costituzionale numero 3/2001. In questo spazio, al momento vuoto, inserisco la normativa sulle macroregioni.

Articolo 115: “Nell’ambito delle Regioni individuate nell’articolo 131 della Costituzione, sono istituite le seguenti macroregioni:

1) macroregione del Nord Italia, costituita dalle regioni Veneto, Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, Liguria; con capoluogo Milano e vice-capoluoghi Venezia-Mestre, Bologna, Genova, Torino;

2) macroregione del Centro Italia, costituita dalle regioni Marche, Umbria, Toscana, Lazio, Abruzzo; con capoluogo Roma e vice-capoluoghi Ancona, Perugia, Firenze, L’Aquila;

3) macroregione del Sud Italia, costituita dalle regioni Campania, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria; con capoluogo Napoli e vice-capoluoghi Campobasso, Bari, Potenza, Catanzaro.

4) Gli uffici del presidente della Giunta, nonché il Consiglio della macroregione, hanno sede nei comuni capoluogo. Nei comuni vice-capoluogo possono essere ubicate le sedi di rami della amministrazione, di enti strumentali, di istituti ed aziende o altri enti, dipendenti o controllati dalla macroregione.

5) Le macroregioni sono enti con compiti di autogoverno del territorio e di programmazione. Individuano le opere pubbliche da realizzare in via prioritaria nel territorio di competenza e ne propongono l’inclusione negli atti di programmazione della Unione europea e dello Stato. Promuovono, definiscono e coordinano l’organizzazione dei servizi da rendere ai cittadini nel territorio di competenza. Organizzano, in particolare, le attività di protezione ambientale, a partire dal ciclo di raccolta e di smaltimento dei rifiuti speciali, industriali ed urbani, nonché le attività di protezione civile finalizzate a prevenire, o fronteggiare, eventi naturali avversi. In armonia con le leggi della Repubblica, le macroregioni sovrintendono alla tutela ed alla manutenzione dei beni culturali e paesaggistici.

6) Il presidente della Giunta è eletto a suffragio universale e diretto dai cittadini elettori delle regioni che costituiscono la macroregione. Il presidente eletto nomina i componenti della Giunta e può revocarli.

7) Il sistema di elezione del presidente e del Consiglio della macroregione è stabilito con legge della Repubblica. Essa definisce pure le cause di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente, dei membri della Giunta e dei consiglieri della macroregione, nonché il trattamento economico e le indennità loro dovute.

8) Dopo la prima elezione del presidente e del Consiglio di una macroregione, viene definita una unica pianta organica del personale dipendente, riconducendo ad essa tutto il personale, di ogni qualifica, prima dipendente dalle regioni che compongono la macroregione. Tale pianta organica viene deliberata dalla Giunta, su proposta delpPresidente. È quindi sottoposta al Consiglio, che la approva a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Tale procedura deve concludersi entro il terzo anno successivo all’insediamento del presidente”.

La proposta deve necessariamente ricomprendere la riformulazione dell’articolo 116 della Costituzione.

Articolo 116:

1) “Il Friuli-Venezia Giulia, il Trentino-Alto-Adige, la Valle d’Aosta, la Sardegna e la Sicilia dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali, adottati con legge costituzionale;

2) Il Friuli-Venezia Giulia ha come capoluogo Trieste, la Valle d’Aosta, Aosta, la Sardegna, Cagliari, la Sicilia, Palermo;

3) La regione Trentino-Alto Adige è costituita dalle Province autonome di Trento e di Bolzano;

4) Le regioni e province ad autonomia differenziata hanno facoltà, con legge regionale o provinciale approvata a maggioranza assoluta dei componenti il consiglio, di attivare ulteriori competenze rispetto a quelle previste dagli statuti speciali, con riferimento a materie di competenza delle macroregioni”.

Si ricordi che il Comune di Roma conserverebbe sempre una duplice dignità istituzionale: Capitale della Repubblica (articolo 114, terzo comma), oltre che capoluogo della macroregione del Centro Italia.

Resta da precisare quale tipo di legittimazione democratica sia prevista per le tre macroregioni. La natura fisica dei luoghi fa sì che la macroregione del Nord sia territorialmente molto più estesa delle altre due macroregioni. Avrebbe una popolazione complessiva di 25 milioni e 133mila abitanti circa (dati Istat al 31 dicembre 2020). Assumendo di eleggere un consigliere regionale ogni 114mila abitanti, il Consiglio della macroregione del Nord Italia sarebbe composto da 220 membri. Con i medesimi parametri, la macroregione del Centro avrebbe una popolazione di 13 milioni e 243mila abitanti, con 115 consiglieri. La macroregione del Sud una popolazione di 12 milioni e 266mila abitanti, con 107 consiglieri.

In conclusione, dal mio punto di vista, una riforma della parte seconda della Costituzione sarebbe non soltanto opportuna, ma necessaria. Concepita per migliorare la forma di governo e per razionalizzare l’ordinamento e il ruolo delle Regioni. Pensata per durare nel tempo, non con il respiro corto di una legislatura. Per fare un buon lavoro di riforma le forze parlamentari, di maggioranza e di opposizione, dovrebbero andare oltre gli steccati ideologici, dismettere tatticismi e furbizie. Dovrebbero dimostrare amor di Patria, operare a servizio del bene comune dell’Italia. Temo, purtroppo, che la realtà delle attuali forze parlamentari sia altra e che a troppi politici faccia comodo conservare questa Italia istituzionalmente scombinata. Continuino con la retorica che il nostro Paese è una potenza economica mondiale, inclusa nel gruppo degli Stati del G7, o che è la seconda potenza industriale manifatturiera della Unione europea. Conservando le attuali istituzioni siamo condannati ad un progressivo ed inarrestabile declino.

(*) Clicca qui per leggere la prima parte

Aggiornato il 24 maggio 2023 alle ore 10:04