Ereticamente pacifisti

Dalle armi alla pace: le parabole della necessità

Siamo solo parole tese sul mondo, in apparenza. Di fronte alle guerre quotidiane narrate in carne, ossa e pixel, impauriti ma forse speranzosi assistiamo al tragico protrarsi del conflitto russo-ucraino, inserendolo in un incerto limbo di epocali anomalie. Sulla cresta fluida di questa post-contemporaneità in divenire, cerchiamo nuove idee politiche per cui batterci, talvolta con un mero “mi piace” sui social per sentirci giusti, o giustificati. Ma non basta.

Come genitori oppure figli storici della sana caduta del muro di Berlino, brancoliamo un po’ tutti alla ricerca di una visione post-ideologica che globalizzi una via di salvezza contro ogni rischio di una seconda Guerra fredda (riscaldata), o di una Terza guerra mondiale. Intanto, mentre facciamo i conti con il nostro grado di coerenza occidentalista liberale, o con il nostro pacchetto identitario nonviolento all inclusive, Vladimir Putin sgancia le proprie offensive belliche sui corpi e sulle vite inermi dei civili, in Ucraina. Il popolo ucraino ha avuto bisogno di resistere per non svendere la propria dignità nazionale, e per non farsi trovare inerme resiste ancora in controffensiva con il peggiore degli strumenti, l’unico però apparso adoperabile pur di non consegnarsi all’aggressore: con la guerra, senza mezzi termini.

In Italia e nel resto del mondo, tra sentimenti e ideali da pragmatizzare, noi pacifisti-di-sempre respiriamo ancora per esistere, come oratori d’opinioni che in uno stato di necessità hanno scisso pace e pacifismo. Così scissi, tra dottrine internazionali e realtà ruvide di vita inedita, non ci resta che sentirci partigiani demo-libertari, contro le liberticide derive imperialiste di Putin. Così scissi eppur momentaneamente decisi, rimandiamo il tempo in cui fare pace con la nostra missione cooperativa di pace. Sperimentiamo, dentro ai nostri ego altromondisti, come al mondo non esistano soltanto un metodo bianco nonviolento e un metodo nero violento da tenere sempre e comunque contrapposti; sperimentiamo come questi metodi non siano sempre due rette parallele destinate a non incontrarsi mai, all’infinito. Ci riscopriamo politicamente perpendicolari a noi stessi, nei nostri conflitti di coscienza metodologica, per non cadere in schizofrenia di fronte alle complessità sanguinanti del reale.

Non evitiamoci la tentazione di chiederci, anzitutto, come intendiamo la pace: come cemento del buon vivere associato, oppure come semplice strategia di perno per conservare una lucrabile quiete geopolitica, tra un conflitto e l’altro?

Di fronte all’anomalia del conflitto russo-ucraino, simmetricamente, ci riscopriamo anomali anche noi: militanti di un post-pacifismo democratico senza un’immediata risposta di pace in bocca; viticoltori d’una speranza di pace su un terreno globale dove abbiamo avuto timore d’impugnare bene l’aratro. Orfani e nostalgici di quel pacifismo che si batté contro la guerra in Vietnam, o contro la guerra occidentalista in un Iraq retrogrado che però non aveva invaso Stati terzi, oggi insorgiamo al fianco del popolo ucraino aggredito, un popolo che ogni giorno subisce vessazioni alla propria libertà e alla propria indipendenza da parte del Cremlino.

Senza più la lingua dei padri morali del non interventismo e del disarmo nonviolento, senza più Aldo Capitini e Gino Strada, privo di palpabili prospettive di pacificazione nonché digiuno d’efficaci mediazioni multilaterali, il centrosinistra, quasi all’unisono si è ritrovato con il centrodestra attorno al fuoco di un inedito europeismo, transatlantico e Zelensky-friendly. D’altronde, come fare diversamente? Così è, se così pare, alla narrativa dominante nei mass-media.

D’altronde continua la guerra di annessione dal lato russo, prosegue la guerra di difesa dal lato ucraino, va avanti il giro del mondo di Volodymyr Zelensky per chiedere sostegni militari ai capi di Stato e di Governo. Ci stiamo mediaticamente abituando a non vedere vie d’uscita, da quel meccanismo di risposta all’offensiva criminale di Putin; e mentre gli animi si colorano astrattamente con l’arcobaleno di una pace soltanto sperata, i bilanci pubblici occidentali si tingono fattivamente di verde oliva, aumentando le spese militari per l’Ucraina. Gli sforzi per il sostentamento bellico di difesa e controffensiva sono rilevanti, e con essi la narrativa dominante ci mostra una via unica senza altre vie d’uscita dall’emergenza e dall’orrore. Possiamo però avere ancora la facoltà e il diritto di dubitare propositivamente, per il bene di tutti onde evitare una riedizione della guerra fredda, stavolta fra Paesi democratici libertari da un lato e Paesi illibertari antidemocratici, dall’altro lato. Qualora così fosse, non potremmo che schierarci dal lato della barricata geopolitica che profuma di diritti e libertà.

Ma la guerra, soprattutto se protratta senza mostrare essa stessa vie di sbocco, a cosa serve se non a mietere vittime civili? A cosa serve, se stiamo sperimentando che la democrazia e l’indipendenza richiedono processi più delicati e non meri sforzi militari? Possiamo, dunque, ed anzi dobbiamo osare di percorrere una direzione “ostinata e contraria”, divergente, con un altro modo possibile di gestire il conflitto russo-ucraino, per un “altro mondo possibile”, iniziando ad investire meno risorse in materiale bellico e più risorse nelle infrastrutture transnazionali della cooperazione allo sviluppo, diplomatico ed amministrativo, per la pace. Occorre efficientare gli strumenti operativi del diritto internazionale di pace.

Arrivati ormai ad una tragica normalizzazione quotidiana della guerra russo-ucraina, i principali mezzi da adoperare non possono più essere gli stessi. Per avere risultati differenti – una pace giusta e democratica tra i popoli, onde evitare la mondializzazione del conflitto – occorre utilizzare strumenti diversi, rispetto a quelli finora impiegati.

Adesso, mostrato e dimostrato il nostro giusto appoggio militare al popolo ucraino e alla sua legittima resistenza armata, dobbiamo porci l’obiettivo fondamentale per il quale siamo chiamati a vivere in società: lo sviluppo cooperativo della pace. Non dobbiamo aver paura di proporre un cambiamento di rotta. Da una parte i pacifisti oltranzisti ci chiameranno eretici per l’appoggio manifestato, anche nelle nostre piazze tinte di giallo e d’azzurro, alla resistenza armata fino ad oggi; d’altra parte, coloro che vogliono continuare sulla stessa via ed aumentare nei bilanci statali le spese militari di guerra ci saluteranno come degli irriducibili sognatori. Saremo, con onore pragmatico, pacifisti eretici. Ed ereticamente i nostri posteri erediteranno – se vorranno – quest’altro pacifismo, progressista.

Procedendo per gradi, affrontando grandi sforzi diplomatici e di mediazione geopolitica, potremmo provare così ad unire l’intero Occidente europeo e l’area mediterranea euroafro-asiatica in una Convenzione per il cessate-il-fuoco, per le negoziazioni e le cooperazioni fra l’aggressore e l’aggredito. Insieme a queste fette di umanità globale dovremmo far capire all’Occidente americano, ed in particolare statunitense, che i toni della politica internazionale devono avere un immediato obiettivo di mitigazione dei conflitti, e non di ulteriore inasprimento degli stessi. Se Joe Biden al momento non ha intenzione di assumere i toni di un pacifismo pragmatico per favorire il dialogo fra Russia e Ucraina, potremmo partire noi stessi come europei, organizzando tavoli transnazionali in cui invitare senza sosta Zelensky e gli apparati del Cremlino. Insistere su linguaggi diversi e magari inediti di nonviolenza-di-Stato, per favorire i processi di pacificazione, potrebbe indurre Putin ad abbassare la sua criminosa tensione aggressiva, e con essa la carica belligerante dei suoi metodi imperialisti. Urge provarci, e riprovarci, fino alla vittoria del fuoco cessato.

Potremmo lavorare instancabilmente, con le nostre diplomazie affamate di pace, per raggiungere dei primi, provvisori obiettivi: portare ad un netto ribasso le pretese putiniane da un lato, garantire dall’altro agli ucraini la ripresa di una vita libera e senza orrori, o almeno senza bombe sulla testa dei civili. Si può essere operatori di pace pur avendo a cuore la resistenza del popolo aggredito: essere operatori di pace, in questo caso, non sarebbe soltanto una vocazione morale dello spirito, poiché la pace conviene a tutti, sotto tutti i punti di vista. La pace è bella perché umanizza le disumanità, ma la pace conviene anche economicamente, conviene per un più immediato inizio dei lavori di ricostruzione di tutti quegli obiettivi civili distrutti dai bombardamenti. La pace conviene per evitare conflitti mondiali e per diminuire lo stress dei popoli belligeranti. La pacificazione conviene per prevenire il configurarsi di nuovi agglomerati predatori, formati da Stati simili che potrebbero riconoscersi sotto la bandiera di un nazionalismo colonizzatore di gruppo. Il processo di pacificazione eviterebbe un conflitto tra i liberali Paesi dell’Unione europea, dell’Inghilterra e degli Usa, da un lato, e gli antidemocratici Paesi come la Russia, l’Iran, la ondivaga Cina, dall’altro.

Gli Stati Uniti d’America potrebbero iniziare a riconoscere l’urgente opportunità umanitaria di tali processi di pace, pur senza svendere i valori di libertà, giustizia e democrazia, a cui ci ispiriamo. Putin non può essere lasciato incontrollato ed incontrastato, altrimenti si creerebbe un precedente internazionale secondo cui ad una potenza sarebbe consentita un’aggressione smisurata in danno di un Paese indipendente. L’auspicabile processo di pacificazione – al posto delle controffensive armante senza fine – dovrebbe tendere ad arginare gli atti aggressivi. Farà il suo corso poi la giustizia della Corte penale internazionale, la quale ha già emanato un mandato d’arresto a carico del presidente russo per crimini di guerra in Ucraina.

Se gli Usa vogliono dimostrare al mondo intero che questa anomala guerra non è una “guerra per procura” tra i loro interessi filo-Nato e l’ex Urss, dovrebbero iniziare a sconfessare ogni sterile dietrologia con i fatti, ossia con metodi comunicativi e diplomatici divergenti, proiettandosi concretamente in insistenti mediazioni di pace, per il cessate-il-fuoco. Consci d’aver fatto bene finora a sostenere la resistenza armata contro la ferocia di Putin, dovremmo ritornare a stancarci della guerra, di ogni guerra, come mezzo perenne e inconcludente, senza però staccarci dal cammino di giustizia, libertà e democrazia per gli ucraini. I maggiori fondi da destinare alle armi potrebbero diventare fondi per la ricostruzione della vita civile in Ucraina. L’obiettivo della pace è chiaramente comune a tutti: agli ucraini, all’Italia e a tutti gli altri Paesi europei che inviano armi da guerra, ma anche agli stessi russi stanchi di Putin e delle sue burocrazie belligeranti.

Non abbiamo ancora – e chissà se mai li avremo – gli Stati Uniti d’Europa. Qualora però dovessero mai giungere ad esistenza (si spera non troppo tardi), non potremmo non fondarli sui diritti civili e sui diritti sociali, quali due facce di una stessa medaglia d’evoluta civiltà. Non potremmo che fondarli anzitutto sulla pace. Senza la pace non ci sono le condizioni necessarie per esercitare, garantire, approfondire i diritti, civili e sociali, ecologici e transgenerazionali.

Anche se a molti sembrerà come fare delle coccole alle astrazioni, potremmo lasciarci ispirare da ciò che Papa Francesco nella sua semplicità ha laicamente suggerito a tutti, ed allo stesso Zelensky, circa gli sforzi da compiere sempre sulla traiettoria della pace. Sulla “missione di pace” degli organi dello Stato Vaticano non abbiamo (ancora) grandi notizie, ad oggi, ma ci speriamo, e ci speriamo pur nello scetticismo di molti, perché occorre sperarci. A tutti gli Stati e a tutti gli enti sovranazionali ed internazionali conviene strutturarsi al meglio in questa missione con il fine di farla diventare globale: serve infatti più forza da canalizzare sulla gestione risolutiva del conflitto. Le parole di Papa Francesco, recepite da tutti senza pregiudizio alcuno sulla fonte, appaiono ancora oggi, nei fatti, le parole di “una voce di uno che grida nel deserto”. Eppure, siamo fatti di parole tese, noi esseri umani, con valori irriducibili e desideri fattivi. Siamo parole che possono diventare azioni di coscienza, individuale e collettiva: parole fragili ma non fugaci, capaci di dispiegare e propagare opinioni, dubbi, rigenerabili certezze. Siamo parole che possono diventare programmi: parole di pace in tempi di guerra; parole capaci di coniugare confusioni e decisioni, pacifismi e resistenze.

Evoluzione, amore e dialettica: le opinioni – dove plasmate con tali ingredienti – possono prendere forma con forza e sostanza, possono prendere vita vera, anche là fuori, dove pare non ci sia ancora speranza.

Aggiornato il 25 maggio 2023 alle ore 10:20