Il vicolo cieco del format della denuncia

Antonella Boralevi può ben cantar vittoria: lo scandalo legato alle accuse per molestie sessuali partite all’indirizzo di Harvey Weinstein e Kevin Spacey e velocemente trasvolate Oltreoceano, ha spianato anche in Italia l’autostrada al “format della denuncia”, dalla scrittrice proposto e auspicato con tonico entusiasmo e vigore.

Chiariamo subito che ai soprusi, alle angherie, alle violenze, alle prevaricazioni di natura sessuale la tempestiva denuncia alla giustizia rappresenta la risposta principale cui un individuo offeso possa, debba, ricorrere. Quando, però, un fenomeno come quello della denuncia di “peccati di lussuria”, che si deve provare rappresentino un reato attraverso la presenza o meno di requisiti che ne connotano la fattispecie, assume le proporzioni da pandemia con cui si sta connotando, si dovrà pure consentire al dubbio e alla cautela di entrare in gioco, ragionare sugli effetti che le azioni comportano sulla società e consentirsi ipotesi di lettura dei fatti meno conformista all’imperativo categorico, ostile alla prudenza, di marchiare condotte di cui viene data testimonianza da una sola parte dei protagonisti sotto il segno della violenza, della molestia, dell’abuso, della costrizione psicologica, dello stupro.

Condotte che nessuno si azzarderebbe a negare vengano inflitte a milioni di donne e, un po’ meno uomini, in ogni angolo del pianeta, ma le cui denunce a distanza di decenni dal presunto momento in cui sarebbero avvenute e comunque dopo che chi accusa, non spinta da stato di necessità, ha tratto o provato a trarre tutti i benefici dell’accettazione del ricatto o della goffa volgarità, lasciano sulla strada dell’accertamento dei fatti qualche dilemma e ambiguità.

Insomma, pentirsi dopo un ventennio di aver usufruito di un sistema di scambio, per lercio che esso sia, porta con sé il segno dell’incoerenza. Anche perché l’alternativa ad accettare quella perversa logica di sistema pur di conseguire obiettivi di successo è di sottrarvisi incrinando quel tipo di supremazia. Per questo non basteranno forse decenni.

La foga scandalistica e puritana si è senza indugi sfamata con le accuse di abusi che hanno polverizzato le due carriere del boss della Miramax Harvey Weinstein e di Kevin Spacey, mentre qualche altro scoppiettio di denunce a una costellazione minore di altri personaggi, tra cui il comico Louis C.K. e l’ex presidente della Fifa Sepp Blatter, sta seguitando a tener vivace la fiamma del moralismo di matrice quacquera che il coté democratico alimenta col tizzone della cultura leninista. Una furia neo puritana che si è velocemente abbattuta anche su nomi italiani come Franco Moretti, Giuseppe Tornatore, Fausto Brizzi e gli altri che non mancheranno di aggiungersi alla lista dei porci risvegliatisi d’improvviso senza ali, anche loro dopo molti anni dalle bravate lussuriose. In attesa che la giustizia, chiamata a diradar le nebbie tra reato e peccato, faccia chiarezza sui singoli casi, il nocciolo al momento è un altro.

Cosa resterà di questo ottuso e convenzionale radicalismo che getta nella medesima indistinta melma paludosa da cui è letteralmente impossibile uscir puliti, comportamenti diversissimi come l’approccio goffo e la violenza fisica, l’avance e la prevaricazione, la marpionata e la costrizione psicologica o l’angheria, comportamenti le cui sostanziali seppur incautamente sovrapponibili differenze ne contrassegnano il grado di gravità e connotazione penale? Significa essere pericolosi correi di chi effettivamente ha compiuto abusi sessuali riconoscere che quando si è al cospetto del trinomio sesso, autorità, carriera o fama, spessissimo le condotte sono tra loro segnate da dinamiche di scambio di potere (quello del denaro o della posizione con quello del sesso) da cui derivano vantaggi reciproci e che sono ben lontani dal costituire reato? Davvero si sceglie, in spregio dei più elementari principi di quel garantismo che deve tenerci lontani da verdetti a mezzo stampa emessi fuori dalle aule dei processi, di rinunciare a contrastare il rischio reale che un’intera società finisca per avvitarsi su se stessa e venga strozzata dal suo stesso conformismo ai roghi dell’Inquisizione e dalla funzione stoltamente risarcitoria o vendicativa?

Il format della denuncia che dà una boccata d’ossigeno alle vendite e agli ascolti di stampa e media sta facendo tremare anche il nostro più modesto red carpet e infiltrerà le sue radici in ogni angolo di società mentre noi chiuderemo gli occhi se, come già accade, assumerà i contorni di un ampio contenitore erogatore di vendette, invidie, regolamento di conti personali, gelosie, rivalse, e via con la peggior campionatura dei sentimenti e delle pulsioni cui da sempre sono inclini gli individui? Le sabbie mobili della pandemia accusatoria hanno forse toccato l’apice con la damnatio memoriae di Spacey, col ritiro dei suoi personaggi da film e serie tv Netflix, per aver commesso il “reato” senza accuse di aver organizzato un festino “motor-sailor” su una barca in costiera amalfitana dando la ghiotta possibilità alla stampa intelligente e salottiera di nicchia di trastullarsi con fosforescenti ipotesi da dormeuse sulla genesi degli scandali hollywoodiani. Solo che mentre ogni dinoccolato accavallar di gamba segna o la tesi dello scandalo come prova di contrasto e di avvertimento al sessismo di Trump, o con speculare congettura dimostrazione del nuovo Maccartismo prêt-à-porter da parte di un entourage presidenziale evidentemente tuttora irritato per le provocatorie e ostili defezioni dei grandi artisti all’inaugurazione del mandato di Donald Trump, l’ipocrita fiamma puritana dei democratici americani alimentata dal tizzone della rigida cultura leninista favorisce nuovi avvilenti scenari che ciascuno giudicherà per suo conto, anche in Italia. Di accusa in accusa, di accreditamento in accreditamento, la solerzia conformista e moralista dei media nostrani che come arpie hanno svolazzato sulle ali della più impietosa e farisaica bacchettoneria darà il suo contributo a pascere un prospero allevamento di giovani allocchi da batteria incapaci di distinguere tra un contatto, per quanto grossolano possa essere, e una molestia o angheria. Possiamo serenamente dichiarare finita l’epoca in cui sia donne che uomini più o meno goffamente o dignitosamente in bianco. D’altronde sarà bene pensarci sette volte sette prima di addentrarsi nella progressione delle effusioni e intimità e comunque non prima di essersi scaricati l’app per il consenso informato. Per i più pavidi resterà il vecchio e sicuro autoerotismo: cieco è il vicolo per i conformisti dei roghi dell’Inquisizione.

Aggiornato il 14 novembre 2017 alle ore 22:09