Legalità sostenibile

Voglio scusarmi anzitutto con i miei affezionati lettori se verso sulla loro paziente benevolenza di cui mi danno tanta prova l’elaborazione di riflessioni cui la mia preparazione, la mia cultura, sono sicuramente inadeguate. Se oso farlo è perché “nel Paese degli orbi beato chi ci ha un occhio”. E, se sono convinto di questa inadeguatezza, ben più fermamente lo sono di quella di molti altri che non solo parlano e scrivono, ma operano e impongono a noi di operare e di sopportare, dando di quel che dico io la prova quotidiana di una certa fondatezza, realizzando il contrario di quanto queste mie povere riflessioni imporrebbero a chi ha ben altre responsabilità.

Mi è capitato (mi sta capitando spesso) di sentirmi rimproverare l’“esagerazione” di una mia affermazione: quella espressa, ad esempio in un mio articolo del 6 ottobre 2017, incluso nella raccolta “Non è solo Saguto”. “Esagerato” sarebbe affermare che le misure di prevenzione antimafia sono causa, chiudendo i rubinetti di altri fonti di credito, del rigoglio degli affari finanziari della mafia, cui garantiscono il monopolio della prestazione del credito e degli investimenti, in un “mercato parallelo” così privilegiato e protetto. “Esagerato” è aggettivo che non esprime che un giudizio relativo. Esagerato rispetto a che cosa? Questi miei non richiesti maestri, infatti, si mostrano scandalizzati del fatto che io affermi, in sostanza, che “addirittura” la “legalità” farebbe più danno della mafia stessa. Il che, oltre ad essere diverso da ciò che dico, è affermazione in sé vuota a falsa.

Povera “legalità”! Da principio fondamentale del diritto penale dei Paesi civili (“nullum crimen, nulla poena, sine praevia lege penali”) è divenuta una arbitraria espressione di ciò che è contrapposto al crimine, al “sistema criminale”. Ne è stato cioè invertito sconciamente il concetto, al contempo svuotandolo e banalizzandolo. Legalità, sarebbe quella cosa che insegnano le mogli dei magistrati e dei poliziotti nelle scuole di Sicilia, Calabria e Campania. E invece questo concetto di legalità dovrebbe essere nuovamente elaborato, approfondito, studiato da menti aperte, schiette e acute. Quali, in verità poche, se ne trovano oggi. Sento il dovere di cercare di farlo non essendo in condizione di potermi definire tale. Non è da escludere che da un ignorante forse un po’ presuntuoso, quale io sono, qualcosa di nuovo e di utile riesca a venire fuori.

Legalità è un sistema. Il sistema delle leggi, dei principi, così come emergono dalla lettera e dalle interpretazioni e, ahimè, applicazioni che se ne fanno. Un sistema che varia nelle sue caratteristiche fondamentali, che diventa il metro del bene e del male della società che lo adotta, che ha, deve avere, perché altrimenti non è che un sistema sgangherato, una sua coerenza che ha, limiti di flessibilità. Se la legalità è metro di compatibilità di fatti, atteggiamenti, con situazioni del vivere civile, non è essa stessa priva di riferimenti ed esigenze di coerenza. Non ogni “legalità”, oltre che “legale” (ovviamente) può dirsi “buona”, adatta, compatibile. Sostenibile è il termine giusto. Con che cosa? Con le strutture materiali e morali dei popoli e degli Stati in cui deve spiegarsi. Con il loro sistema e con la realtà della loro economia. Si può, anzi, affermare che la legalità non può che essere coerente e “sostenibile” rispetto alla realtà economica e sociale cui dovrebbe imporsi. Questo è il punto.

Difficoltà e attriti in questo rapporto esistono sempre. La loro entità, durata, qualità, segna il limite della “sostenibilità”, che è poi imprescindibile dato della legalità, della sua essenza e “unicità”. Perché se la legalità (si fa per dire) numero 1 non è sostenibile, accanto ad essa inesorabilmente si crea un altro sistema ad essa analogo e contrario. Potremmo chiamarla la “legalità” n. 2 o illegalità. Questo concetto si traduce anzitutto in quello ben altrimenti espresso e sostenuto da una mente come quella del grande giurista Santi Romano (“La pluralità degli ordinamenti giuridici”). Che però non approfondì mai, sul piano sociologico, politico e su quello della loro conflittualità degli “ordinamenti”, inevitabile in questa pluralità, né, che io sappia, la sviluppò con adeguate indagini e riferimenti storici.

Uno sguardo alla nostra storia e a quella di queste “entità parallele”, oltre che a quella della nostra economia e del suo sviluppo e dei suoi momenti di ristagno e di regresso può dare, io credo, risultati di enorme rilevanza ai fini della conoscenza della natura, degli sviluppi, della genesi e delle augurabili prospettive di estinzione di fenomeni come quelli della mafia, della camorra etc. Essi sono tutti, chi più e chi meno evidentemente, in epoche e situazioni diverse, frutto “parallelo” di sistemi economici con ordinamenti e leggi insostenibili imposti dalla legalità “ufficiale”, dello Stato e di altre forme di potere dati ed accettati come “normali”.

Senza spingersi troppo addietro nel tempo, si può dire che certamente “insostenibile” si dimostrò negli Stati Uniti la legislazione proibizionista delle bevande alcoliche. Che, oltre a far crescere l’abuso dell’alcool, rafforzò la malavita facendone un sistema potente e capace di “autoproteggersi” con la corruzione e la violenza. Tutta la storia della nostra Repubblica è segnata dall’istituzione di un sistema semi-socialista imperniato sulle “partecipazioni statali”. Un sistema giuridico-economico insostenibile nel contesto generale italiano e occidentale. L’effetto fu quello di un parallelo sistema di “adattamento” della democrazia e del sistema dei partiti a una “spartizione” depredatoria del potere e del denaro pubblico profondamente radicato e tale da apparire inestirpabile con la “legalità di fatto” di tangenti, spartizioni, depredazioni.

Altri meno appariscenti fenomeni di legislazione “insostenibile” ve ne furono, quale quello, assai poco studiato, della “pressione sociale” sulla proprietà edilizia, già duramente provata dalle distruzioni belliche, sulla quale fu, di fatto, riversato gran parte del peso del problema casa. Ne seguì il passaggio di gran parte di quelle vecchie proprietà in mani di speculatori disposti a valersi di mezzi mafiosi per sfruttare le loro acquisizioni eludendo limiti e imposizioni. Alcune situazioni di criminalità organizzata da ciò ebbero origine in varie città. Perché questa “economia sommersa” (alla cui floridezza si deve buona parte del “miracolo” economico italiano, finché ci fu, e, poi della sopravvivenza del Paese in periodo di crisi) finisce sempre per crearsi l’equivalente (criminoso) della protezione legale che, in quanto “sommersa” non ha nell’apparato dello Stato. E l’economia sommersa è, in buona sostanza e in parte notevole, la conseguenza di una insostenibilità di norme che impongono oneri, vincoli, condizioni e complicazioni burocratiche che nella realtà dell’economia e dell’assetto sociale non possono trovare adeguata applicazione.

La più evidente e grossa di queste situazioni è quella dell’evasione fiscale, frutto in misura cospicua dell’esorbitante livello della pressione tributaria. Se c’è un’economia che vive e sopravvive grazie all’evasione, ad un certo punto ad essa diventa “necessario” l’inserimento, la protezione, l’equivalente della “giustizia”, che può essere fornita solo dalle grosse organizzazioni criminali. Ma chi ritenesse che per combattere le organizzazioni criminali, la mafia, la camorra etc. etc. bisognerebbe semplicemente arrivare a far scomparire l’evasione fiscale, commetterebbe un grosso errore di inversione dei termini della questione. Sono considerazioni che assai meglio di me altri potrebbe sviluppare.

Temo, però, di avere per occuparmene, una qualità purtroppo non troppo diffusa: quella di non temere di parlare e pensare controcorrente.

Aggiornato il 17 novembre 2017 alle ore 08:40