L’equità malintesa

sabato 18 novembre 2017


“Arriva la svolta dell’equo compenso” strillava il Corriere della Sera annunciando l’approvazione di un emendamento secondo il quale la parcella è legittima solo se “proporzionale alla qualità e alla quantità del lavoro svolto”. Il compenso dei professionisti, che, per l’intreccio di norme e prassi, oscilla tra tariffe e “palmari”, la legge vorrebbe che fosse “equo”, cioè, sembrerebbe voler dire, conforme a giustizia. Fosse possibile! Non è male ricordare che l’articolo 118 della Costituzione sovietica del 1947 stabiliva: “I cittadini dell’Urss hanno diritto al lavoro, cioè hanno diritto ad ottenere un lavoro garantito, con remunerazione del lavoro secondo la qualità e la quantità”. Due articoli in particolare della nostra Costituzione sembrano averlo ricopiato (essendo coeva ma non solo per tal motivo!): l’articolo 4 secondo cui “La Repubblica riconosce il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto” e l’articolo 36 per il quale “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”.

Quindi l’emendamento in questione, per essere approvato, ha dovuto semplicemente confermare una disposizione costituzionale che affonda le radici nel terreno scivoloso e ambiguo del socialismo sovietico e italico. Il ministro della Giustizia ha con illegittimo orgoglio commentato il voto dei senatori (i deputati seguiranno) con una frase sorprendentemente stupida, che però risponde all’esigenza di captare i voti dei destinatari, cioè di quattro milioni e mezzo di professionisti iscritti agli Ordini e Collegi; eccola: “È un impegno preso con i professionisti per sradicare un vero e proprio caporalato intellettuale”.

A parte che, secondo molti degli stessi fautori, l’emendamento andrà precisato con regole attuative, esso coinvolge un punto fondamentale dell’etica e dell’economia, che sfugge (ma forse, al contrario, è ben presente) ai governanti italiani, che si gonfiano come la celebre rana riempiendosi di giustizia sociale, equi prezzi, equi salari. L’uzzolo di controllare e stabilire i prezzi si è spesso trasformato in un’autentica ossessione politica, rivelatasi non solo controproducente e autolesionistica, ma anche generativa dell’ipernormazione, senza tuttavia riuscire a bloccare la libertà contrattuale, che si vendica con i patti in deroga e con le retribuzioni in nero. Dall’equo canone negli affitti agrari e nelle locazioni urbane, che ha ingessato i rapporti, si esce in modo stravagante con l’assistenza sindacale. Affrancati dai genitori ma pupilli dei sindacati: una vergogna morale, una bardatura giuridica, un controsenso economico, un tributo senza legge. Il controllo sui prezzi, come sulle tariffe professionali, è un modo subdolo e obliquo di stravolgere la libertà contrattuale, fondamento spirituale e strutturale dell’economia. Gli equi prezzi non devono essere determinati dalle leggi e dai provvedimenti, ma dal mercato. Fissarli dall’alto non rende i prezzi più giusti di quanto sarebbero per effetto della concorrenza. I concetti di giustizia e ingiustizia sono inconciliabili con i prezzi. Legislatori e governanti manipolano i prezzi di mercato non perché siano ingiusti e debbano farli diventare giusti, ma sol perché superiori o inferiori a quelli che reputano appropriati a certi elettori per acquisirne o conservarne il consenso. È un’amenità considerare iniquo ciò che spiace a una maggioranza parlamentare. Il prezzo cosiddetto equo è un’impostura vera e propria. Esprime soltanto la differenza tra prezzo di mercato e prezzo d’autorità, non già il benché minimo senso di giustizia.

Per secoli, menti brillantissime hanno cercato un metro oggettivo di equità per l’economia. Ma invano, semplicemente perché il metro non esiste. Equo prezzo, equo canone, equo salario, equo interesse, equo compenso sono astuzie da ciarlatani. Già i Gesuiti spagnoli, all’inizio del Seicento, avevano ammesso l’incapacità umana di definire il giusto prezzo che solo l’infinita sapienza di Dio può comprendere e misurare. Nessun soffio celeste o saggezza divina ispirano i voti delle maggioranze parlamentari. Quant’è umoristica la giustizia che invece della spada brandisce l’indice di gradimento elettorale.


di Pietro Di Muccio de Quattro