Il linciaggio di Woody e il giornalismo corporativo

Il linciaggio mediatico contro Woody Allen implica – se si postula la sua colpevolezza – la rivalutazione di tutte le nefandezze che si vedono quando si intraprende, soprattutto in America, una causa di divorzio contro un uomo famoso e potente. Almeno nel suo ambiente culturale e lavorativo. Nefandezze che molto spesso comprendono false accuse di molestie sessuali ai figli che spesso sono l’ostaggio di queste cause (in) civili di divorzio. Ergo, proprio nella non postulabilità di tale colpevolezza – per giunta giustificandola con la pretesa potenza e influenza pubblica del personaggio – risiede quel che resta dello Stato di diritto.

I media si dolgono - si legge - del processo cui vengono a volte persino loro sottoposti. È capitato, ad esempio, ai cronisti giudiziari da parte di questa o quella camera penale di una città italiana. Ma l’insorgere corporativo contro queste iniziative stride spesso, ormai molto spesso, proprio con la qualità del lavoro giornalistico espresso. E giustamente criticato. Ci si lamenta in particolare degli “osservatori sui media”. Ma non si considera che - così come De Benedetti ha presentato il conto di una spocchia pluridecennale che partiva da Eugenio Scalfari e si infondeva a tutto il corpo redazionale di “la Repubblica”, magari in maniera non signorile - anche i quisque de populo, la gente della strada, gli avvocati, i giornalisti con minor successo - e soprattutto con mancanza di quel protagonismo esibizionistico che poi garantisce la visibilità - sentono il bisogno di presentare il conto alla stampa costantemente in prima linea. In prima linea per scelta opportunistica non perché ce ne sia mai stato il bisogno. Era comodo avere il pm che ti passava sempre le notizie, che ti presentava i suoi ragazzi della sezione giudiziaria nelle forze dell’ordine... e via “per li rami”.

Fico avere notizie così mentre i colleghi meno scafati, anche se non per questo meno bravi, dovevano tirare la carretta con il terrore del buco. Che poi si è visto quanto dopato fosse. Quei giornalisti che facevano i corifei a Di Pietro, che si sentivano molto squadra, e che spesso hanno rischiato di divenire una vera e propria “banda”, adesso sono sotto processo un po’ ovunque. La gente si chiede - e chiede loro - da chi siano stati pagati per fare diventare l’Italia un Paese forcaiolo a trazione para grillina.

E in America chiedono conto a giornali autorevoli come il New York Times (e non solo) di varie porcate, tra cui quelle contro Woody Allen, fatte passare per colpi giornalistici. O come notizie utili per la società. Anche Donald Trump è stato bombardato, ed è tuttora sotto attacco, così. Si cerca un simbolo da infrangere, lo si fa badando poco alla sostanza e molto all’apparenza, con metodi spicci, e poi si costruisce una campagna moralistica politically correct da portare avanti a ogni costo. Spesso in sinergia con magistrati che si prestano. Ne sa qualcosa Berlusconi, in Italia. Il sesso in genere e le perversioni sessuali in particolare sono i benvenuti quando si cerca di fare scoppiare un caso. Ma la gamma dei pretesti da usare è pressoché infinita. In Italia i reati contro la Pubblica amministrazione sembrano essere considerati peggio che l’omicidio, ad esempio. Molti chiedono conto ai giornalisti - però - del crollo di vendita dei giornali e della scarsa frequentazione anche degli spazi giornalistici televisivi che non siano quelli calcistici. Infine si tende a imputare a questa informazione drogata, che è parente stretta di quella robotica che propala le fake news, la scarsa frequentazione delle urne da parte degli italiani. E in America, degli americani. Che comunque le urne non le frequentano mai volentieri.

Quindi ora che sembra arrivato il “redde rationem” è inutile buttarla in caciara con il corporativismo o invocare sempre il sacro articolo 21 della Costituzione. Come qualcuno disse a Eugenio Scalfari che se la libertà di stampa “non si compra” allora nemmeno “si deve vendere”, a costoro, che sempre si appellano all’articolo 21 per mandare la palla in corner, qualcun altro ricorderà che chi è stato causa del proprio male, in maniera proterva e opportunistica, adesso non può chiedere a tutti gli altri una militanza di solidarietà. Per dirla alla romanesca, il tutto si riassume in un “ma de che?”.

Aggiornato il 24 gennaio 2018 alle ore 08:07