L’arte del rifiuto

Città e rifiuti. Un binomio sempre più problematico, per via della collocazione degli impianti di smaltimento dei rifiuti domestici. Non esistono in merito, come si sa, soluzioni facili. In Italia la diffidenza dei cittadini verso le Istituzioni genera falsi miti e leggende sui rischi presunti che le varie soluzioni tecniche comportano. Quindi, il problema, a ben guardare, è più politico che tecnico. Vediamo i fatti. Ogni italiano produce quotidianamente, in media, un chilo di rifiuti domestici: quindi, per una città come Roma il tutto si traduce in circa 3 milioni di chili al giorno, pari a 300 tir. Raccogliere questi rifiuti non è certo difficile: il problema è dove portarli e per farci che cosa. Storicamente, la soluzione naturale è sempre stata la discarica. Un tempo i rifiuti domestici organici andavano a nutrire polli e maiali; i cibi si compravano sfusi; le bottiglie erano solo di vetro ed erano sempre a rendere; tovaglie, tovaglioli, panni assorbenti per le donne e per neonati, si lavavano e riutilizzavano, la plastica non esisteva; per metalli, stracci e carta c’erano piccoli raccoglitori che facevano la raccolta a domicilio. Solo il poco che avanzava finiva in discariche.

E, oggi come funziona? Montagne di pannolini, assorbenti, confezioni per alimenti cotti e crudi, tutto è imballato, stampato, colorato. Ogni sciocchezza è messa in un sacchetto di plastica. La discarica non è più pensabile. Uno spazio di 10 ettari, con i rifiuti di Roma diventerebbe una collina di 100 metri di altezza in 10 anni. Con l’aggravante che le discariche mal fatte inquinano le falde acquifere. Perciò, il mantra ricorrente è il riciclo che di per se, però, non è sufficiente. Soltanto alcune cose come il vetro, il ferro e l’alluminio sono riciclabili indefinitamente. Carta e plastica si degradano e possono essere riciclate al massimo un paio di volte. La raccolta differenziata genera organico che va alla fermentazione; vetro metalli e carta che vanno al riciclo; rifiuto indifferenziato che va a discarica o all’incenerimento. Sembra semplice, ma non lo è. Gli impianti di fermentazione sono maleodoranti e richiedono spazio; il riciclo della plastica richiede una preselezione e una quota va a discarica o incenerimento. Lo stesso per la carta. Quindi alla fine del ciclo c’è sempre la discarica e/o l’incenerimento.

Stranamente, anche se la discarica è molto pericolosa per inquinamento delle falde acquifere e genera cattivi odori, è l’incenerimento a causare fortissime reazioni emotive, assieme al rischio di avvelenamento dei corsi d’acqua. Eppure, esistono da molto tempo tecnologie efficaci per pulire i fumi. Per di più, noi inviamo l’immondizia indifferenziata o quasi in grandi città europee dove è incenerita ad alto costo. Tedeschi, olandesi, austriaci siano così stupidi da avvelenarsi con i fumi italiani? No, loro sanno come pulirli e il governo punisce con severe sanzioni chi non smaltisce nel modo giusto.

Nella sola Tokyo ci sono 16 inceneritori funzionanti! Il problema è il solito dell’Italia: se al controllo degli inceneritori ci si mettono raccomandati legati al potere locale, il problema non è tecnico ma politico. Da almeno un decennio c’è una tecnica d’incenerimento a prova di incapaci: il passaggio del rifiuto attraverso le torce al plasma, dove la temperatura d’incenerimento è tale da distruggere completamente ogni composto chimico. In uscita si producono solo idrogeno e ossido di carbonio utilizzabili come combustibili puliti per generare energia elettrica. Si tratta di tecnologie molto raffinate ma già utilizzate con successo altrove, come in Giappone (v. Fukuoka, un agglomerato urbano da circa 2,5 milioni di abitanti; Mahama-Mikata e Utashinai) e in Usa dove sono presenti in ben sette città, tra cui Honolulu. E, per finire, impianti di incenerimento di questo tipo generano profitto e posti di lavoro qualificati.

Aggiornato il 06 febbraio 2018 alle ore 08:17