Il “folle” di Macerata: un caso isolato?

mercoledì 7 febbraio 2018


Il caso del folle gesto di Macerata, in danno di sei richiedenti asilo, richiede analisi più approfondite. Perché è stato superato un limite che fino a qualche giorno fa consideravamo un po’ tutti invalicabile. Si diceva in coro che gli italiani non sono violenti, che non perdono le staffe, che non sarebbero mai capaci d’imbracciare le armi... Tutte cose vecchie. Oggi sappiamo che ad armare il maceratese Luca Traini è stata la polemica politica, i toni accesi. Le tenzoni tra i seguaci di Matteo Salvini e quelli di Laura Boldrini. L’episodio di Macerata è paragonabile agli attentati parigini: in Francia avevano detto in coro sociologi e politici che chi abitava nelle banlieue avrebbe dovuto mettere in conto un “percorso d’esclusione sociale”. Così è capitato che i magrebini di seconda e terza generazione, non proni ai “percorsi d’esclusione sociale”, si sono arruolati nell’Isis e poi sono tornati a Parigi per fare stragi.

Parimenti, nell’Italia dei talk-show dove ci si prende a pesci in faccia, i tanti disoccupati ed emarginati italiani possono alimentarsi con le scaramucce politiche sui corridoi preferenziali nella sanità pubblica per i migranti, con la storia che le case popolari vengono date prima agli stranieri e poi agli italiani, con la verità che nessuna azienda ha più convenienza ad assumere un disoccupato italiano. Ecco che gli ingredienti della guerra tra poveri ci sono tutti. Quello che dovrebbe far pensare è che, dopo Traini, altri potrebbero armarsi e puntare le armi contro la classe dirigente del Paese, che a par loro darebbe lavoro e soldi ai migranti e non agli italiani disoccupati. Il problema è che il caso di Macerata potrebbe aver spalancato la porta di una guerra civile di stampo balcanico. Ovvero che dopo le elezioni, qualora votasse meno del 40 per cento degli aventi diritto, tanti Traini potrebbero, senza preavviso alcuno, aprire il fuoco sui rappresentati istituzionali. Già in altri articoli abbiamo dimostrato come quindici milioni di disoccupati possano vicendevolmente leggersi come un esercito d’emarginati o come una forza eversiva capace di soverchiare le istituzioni. Perché chi è in una sorta di “percorso d’esclusione sociale” è per forza di cose persona che vive fuori dalle istituzioni (e dalle regole) d’una democrazia rappresentativa.

Ben sappiamo che la democrazia non è un valore, bensì un metodo di cernita della massima classe dirigente, quella politica. La non partecipazione ai momenti di scelta pone già in una sorta di “latitanza” i cittadini in pieno “percorso d’esclusione sociale”. Al punto che non è sbagliato che certe componenti delle forze dell’ordine leggano nelle frange di disoccupazione l’eventuale forza eversiva, quelle che qualcuno etichettava come “braccia della rivoluzione”.

Ci si augura che certe derive possano rimanere esempi (e digressioni) di tipo socio-accademico. Ma si stenta a credere che, in un Paese dove è possibile acquistare una pistola Glock calibro 9, non sia probabile che un esercito di disoccupati non possa rinvenire Kalashnikov per contrapporsi al volere d’amministratori locali e governi nazionali. È stata aperta una strada pericolosa, a farlo è stato il folle Traini, ma le colpe vanno dalla Boldrini a Salvini. È evidente che se gli anni di piombo videro contrapporsi solo dei gruppi, oggi il rischio è che masse scomposte di disoccupati possano aggredire in modo imprevedibile uffici pubblici, migranti, sedi di amministrazioni, banche. La pace sociale è davvero in pericolo.


di Ruggiero Capone