La Capitale nella giungla dei minimarket

martedì 6 marzo 2018


Roma, ore 24, zona Monti. Una piccola folla composta da tantissimi giovani si raduna intorno ad un piccolo minimarket con una luce al neon scintillante. Hanno tutti una birra in mano e sono intenti a chiacchierare allegramente. La stessa scena si ripete ogni sera per le vie di Trastevere e di San Lorenzo.

Ma perché si crea la fila proprio davanti a quei piccoli negozi di quartiere gestiti esclusivamente da cittadini del Bangladesh? Semplice, perché lì la birra costa 1,20 euro. Nel locale accanto invece, il prezzo sale a 3 euro, raggiungendo picchi di 6 euro la bottiglia. Un bel risparmio per chi vuole far festa senza spendere troppo. Ma questi piccoli negozi alimentari che, proliferano a vista d’occhio, sono la salvezza anche di moltissimi stranieri che, una volta approdati nella città eterna, sono alla disperata ricerca di un supermercato aperto fino all’una di notte.

La fortuna di questi minimarket, chiamati a Roma “Bangladini”, è tale che due giovani ragazzi romani hanno creato anche un app per cellulari che permette di localizzare in modo veloce, il negozio più vicino. Con questa strumento è possibile conoscere in anticipo l’orario di chiusura di un esercizio ma soprattutto di conoscerne il prezzo della birra.

Ma cosa differenzia questo tipo di attività da un piccolo alimentare italiano qualsiasi? Innanzitutto l’orario di chiusura. I “bangladini” restano aperti fino a tardi, a volte anche fino alle due del mattino e offrono ogni genere di alimento e bevande. E questo dal lunedì alla domenica, non stop. Mentre un alimentare italiano di quartiere chiude intorno alle 20, spesso alle 19.30. I supermercati notturni inoltre sono pochi e lontani dalla zona di residenza, e quindi il minimarket rappresenta l’ultima salvezza per chi deve fare la spesa last minute. Ma quanti sono i minimarket a Roma? E da chi vengono gestiti? Le attività commerciali gestite da commerciati bengalesi sono circa 4500. Secondo la Camera di Commercio di Roma, analizzando la composizione delle nuove imprese nel 2015, la comunità più numerosa proviene proprio dal Bangladesh (12.235 imprenditori), seguita da quella cinese (3.333). E secondo Confesercenti, i cittadini bengalesi controllano il 22,7 per cento dei minimarket in Italia.

Un’imprenditoria vincente e fiorente che apre lo scenario anche a qualche domanda di carattere legale. Quali sono i passaggi per aprire un minimarket? Per prima cosa, bisogna frequentare un corso di abilitazione, l'ex Rec anche detto corso Sab (Somministrazione di alimenti e bevande) che consente l’iscrizione nel Registro Imprese. In seguito, per l’apertura effettiva di un negozio, bisogna disporre di circa 20mila euro, ma la cifra può variare a seconda del quartiere. I bengalesi benestanti prestano i soldi ai connazionali meno fortunati, creando una rete di solidarietà che spesso sfocia in racket e sfruttamento. E qui iniziano le “curiosità”. In questi piccoli negozi, è difficile vedere venditori italiani. Vengono assunti esclusivamente persone del Bangladesh, in nome di una vicinanza culturale e religioso molto marcata. Questo permette ai bengalesi arrivati da poco in Italia di ottenere un permesso di soggiorno e di poter mantenere la propria famiglia. Ascoltando le voci di Abdullah e dei suoi connazionali, si scopre che il ritmo di lavoro è sempre lo stesso: 8 ore di lavoro da contratto, che spesso si allungano fino alle 16 ore non stop. Stipendio medio? Tra i 600 e 800 euro per il full-time e 200 euro per il part-time.

Questi esercizi commerciali crescono in barba alle regole, vantando occupazioni di suolo pubblico inesistenti, acquistando all’ingrosso e vendendo al dettaglio frutta e verdura a prezzi di molto inferiori a quelli di mercato. I controlli sono difficili, a volte inesistenti. Ma è sulla vendite di alcol che si scatena la vera polemica. Spesso le bevande alcoliche, vendute anche oltre l’orario consentito dalla legge, vengono battute con lo stesso tipo di scontrino valido per i generi ortofrutticoli, che hanno però l’Iva al 4 e non al 22 per cento. In questo modo, il guadagno per il commerciante raddoppia ogni sera. E quando scatta la sanzione, la soluzione usata per beffare la legge è sempre la stessa: chiudere il negozio per poi riaprirlo, dopo alcuni mesi, pochi metri più in là.

Insomma, una concorrenza sleale e molto forte per i negozi alimentari italiani che devono far fronte ad una tassazione molto importante e a controlli rigidi che spesso non permettere loro di arrivare a fine mese. Una situazione non proprio sotto controllo e che sembra non destare molta preoccupazione fra i clienti intervistati che di fronte ad un evidente risparmio, chiudono allegramente un occhio su illegalità e concorrenza sleale.


di Cristina De Palma