Tortora è ancora il “Caso Italia”

lunedì 18 giugno 2018


Quello che viene chiamato il “Caso Tortora” (e che lui definiva più propriamente il “Caso Italia”, il caso della mala-giustizia, il caso del magistrato che non paga mai, neppure per colpa grave) rischia di scolorire nella memoria collettiva e individuale. Inoltre sono tanti quelli che possiamo definire “gli eroi della sesta giornata”: coloro che ora si “esibiscono” nel tentativo di accaparrarsi dei meriti che non hanno, quando ben altro è stato a suo tempo il comportamento tenuto e ben altre le posizioni assunte. E allora ecco che conviene parlarne, senza stancarsi di farlo, ostinati e pervicaci, senza il timore di “annoiare”. Nessuno deve poter dire: non sapevo, nessuno mi ha detto.

Enzo Tortora viene arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via in Selci a Roma, fino a tarda mattinata: lo si fa uscire solo quando si è ben sicuri che televisioni e giornalisti sono accorsi per poterlo mostrare in manette. La prima di una infinita serie di mascalzonate. A distanza di tanti anni da quei fatti, conviene ancora cercare la risposta alla domanda: perché è accaduto quel che è accaduto? Alla ricerca di una soddisfacente risposta, si affonda in uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’Urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Il cuore della vicenda è qui. Sono le 21,45 del 27 aprile 1981 quando le Brigate Rosse sequestrano Cirillo. Segue una frenetica, spasmodica trattativa condotta da esponenti politici della Democrazia cristiana, Cutolo e uomini dei Servizi segreti per “riscattarlo”. Viene chiesto un riscatto di svariati miliardi. Il denaro viene trovato. Durante la strada una parte viene trattenuta e non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi di lire. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la Commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati, da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, “mai più ritrovato”.

Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli qui i termini di una questione che ancora “brucia”. Cominciamo col dire che: Tortora era un uomo perbene, vittima di un mostruoso errore giudiziario. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato.

“Cinico mercante di morte”, lo definisce il Pubblico ministero Diego Marmo; e aggiunge: “Più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza”. Le “prove” erano la parola di Giovanni Pandico, un camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Pasquale Barra detto ’o animale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia l’intestino… Con le loro dichiarazioni, Pandico e Barra danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Arriviamo ora al nostro “perché?” e al “contesto”.

A legare il riscatto per Cirillo raccolto dai costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”, per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. È in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”: 850 mandati di cattura, e tra loro decine di arrestati colpevoli di omonimia, gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104... Documenti ufficiali, non congetture.

Come un documento di straordinaria e inquietante efficacia, l’intervista fatta per il Tg2 con Silvia, la figlia di Enzo: quando suo padre fu arrestato, oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra cosa c’era? “Nulla”.

Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? “No, mai”.

Intercettazioni telefoniche? “Nessuna”.

Ispezioni patrimoniali, bancarie? “Nessuna”.

Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? “Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. È risultato che erano di altri”.

Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? “Nessuna”.

Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. Su che prove? “Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato”.

Qualcuno le ha mai chiesto scusa per quello che è accaduto? “No”.

Candidato al Parlamento europeo nelle liste radicali, eletto, chiede sia concessa l’autorizzazione a procedere, che invece all’unanimità viene negata. A questo punto, Tortora si dimette e si consegna all’autorità, finendo agli arresti domiciliari. Diventa presidente del Partito Radicale e i temi della giustizia e del carcere diventano la “sua” ossessione. Ora tutti lo evocano, quando ci si vuole accreditare come perseguitati della giustizia. La cosa che si fa, si è fatta, viene fatta, è occultare con cura il Tortora politico, che si impegna a fianco di Marco Pannella e dei Radicali per la giustizia giusta. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è cosa ormai assodata. Nessuno dei “pentiti” che lo ha accusato è stato chiamato a rispondere delle sue calunnie. I magistrati dell’inchiesta hanno tutti fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Stroncato dal tumore, Enzo Tortora ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”.

 


di Valter Vecellio