La Consulta sgambetta il “forcaiolismo” del governo

Certezza del diritto costituzionale non di una pena feroce e astratta. La Corte costituzionale ha dato un duro colpo alle velleità giustizialiste della maggioranza di governo. Dichiarando incostituzionale la stessa Legge Gozzini, così come a suo tempo modificata, nel punto in cui esclude dai benefici carcerari gli ergastolani condannati per sequestro di persona, anche a scopo di terrorismo e dove l’ostaggio sia stato ucciso o sia morto in prigionia, prima di 26 anni di carcere consecutivo.

Una sentenza che potrà far discutere Alfonso Bonafede e Matteo Salvini, che si apprestano a varare un decreto sicurezza all’insegna del “tutti in galera”, ma anche un segnale ben preciso: inutili queste leggi draconiane. Che non potranno reggere al vaglio di costituzionalità. Così come non ressero – a suo tempo – i ben più equilibrati decreti sicurezza di Roberto Maroni, letteralmente smontati a pezzi negli anni successivi al varo. Cioè dal 2009 in poi.

Secondo la Consulta le preclusioni assolute per i due “reati ostativi” previsti dagli articoli 630 e 289 bis del Codice penale sono da considerarsi “intrinsecamente irragionevoli” alla luce del principio stabilito dall’articolo 27, terzo comma, della Costituzione, secondo il quale le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. La questione era stata sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Venezia, al quale un condannato all’ergastolo per sequestro a scopo di estorsione e omicidio della vittima aveva chiesto di poter accedere al regime di semilibertà avendo trascorso più di 20 anni in carcere, dove si era meritevolmente impegnato in attività lavorative e di studio. Adesso chiunque nelle sue stesse condizioni, se il giudice di sorveglianza lo riterrà degno e si prenderà la responsabilità, potrà accedere ai primi permessi premio già dopo dieci anni dalla condanna definitiva scontati in carcere.

Il messaggio implicito lanciato dai giudici costituzionali con la sentenza 149, giudice relatore Francesco Viganò, è semplice: la “vendetta” che lo Stato può – anzi deve – compiere una volta che il criminale è nelle sue mani consiste nella rieducazione. Che peraltro crea più sicurezza del generico slogan “buttate le chiavi”. Visto che prima o poi, nella maggior parte dei casi, il reo condannato definitivamente dal carcere esce. E spesso senza aver fatto un percorso riabilitativo.

La sicurezza si crea quindi non con il generico “inasprire le pene”, che sono già asperrime, ma con il neutralizzare la recidiva recuperando gli individui. E i dati sulla recidiva confortano questa giurisprudenza: chi sconta tutta la pena in carcere vi ritorna in due casi su tre. Chi usufruisce di pene alternative una volta su sei. Non è una scienza esatta, ma i numeri sono questi. Da anni, peraltro, questa giurisprudenza costituzionale è costante. Ma la su citata sentenza che arriva nel momento in cui i ministri del governo Lega-Cinque Stelle fanno a gara di “cattivismo” mediatico sembra un chiaro monito a non allargarsi troppo con la propaganda e con i provvedimenti bandiera. Che anche il capo dello Stato, a questo punto, farebbe fatica a firmare.

Aggiornato il 12 luglio 2018 alle ore 12:11