Siamo diventati davvero razzisti?

Se io, da italiano, lavoratore e senza carichi pendenti, andassi negli Stati Uniti senza permesso di soggiorno e magari senza passaporto, cosa credete che possa succedermi? La legge vuole che il sottoscritto venga identificato, denunciato per immigrazione clandestina e, se sono caritatevoli, rimandato indietro col primo aereo o nave disponibile e dietro l’avvertimento che, se ci riprovassi, mi darebbero un nuovo domicilio: in galera.

A poco varrebbero per il democraticissimo, liberale, bravo e onesto poliziotto statunitense le mie giustificazioni, qualunque esse siano: verrei rimandato a casa. Non verrei accettato perché sarei colpevole di violenza contro lo Stato e i suoi cittadini, che non negano ospitalità a nessuno, ma con le loro regole. Se io dicessi “sai che c’è, non mi va di fare tutta la trafila burocratica come lavoratore, studente, turista, o non posso, o non voglio, non ne sono capace, non voglio aspettare e ci provo da me” la reazione della legge sarebbe la stessa in tutti gli altri Paesi del mondo: Australia, India, Marocco… tutti. Per tutti questi Paesi l’immigrazione clandestina è una forma di violenza, perpetrata da chi non accetta le regole ma le piega al proprio interesse. Non dimentichiamocelo mai. Povertà, guerra, lavoro, ogni motivazione che possa esservi, è un interesse ed è personale. Piega le regole al proprio interesse. Prendiamo l’Australia, ad esempio. È facilitata dall’essere un’isola ma, nonostante questo, attua una rigida politica contro l’immigrazione clandestina. In Australia si arriva per fare “quei lavori che gli australiani non vogliono più fare”, lo si fa tramite apposite agenzie che organizzano il tutto, ci si presenta con regolare visto, che non è eterno, ci si fa il mazzo e si rientra a casa, per poi ricominciare. Dopo più di dieci anni si può forse ottenere la cittadinanza, quando si è dimostrato di essere una vera risorsa per quel Paese, ed a pieno titolo. Nessuno dice che l’immigrazione non sia una risorsa, ma deve diventarlo per tutti e non soltanto per chi gestisce cooperative, centri di accoglienza o navi.

Sono diventati tutti, di colpo, cattivi ed egoisti? No. Se le nazioni sono tenute a controllare il flusso di una sola persona, a chiedersi che impatto possa avere in una delle loro città, a dover controllare se ha le carte in regola, a pesare bene la sua presenza sull’ago della bilancia e a rimandarla indietro se necessario, quale pensate che possa essere la conseguenza di un flusso di un milione di persone in un solo Paese? Può uno Stato di diritto mettere sullo stesso piano un lavoratore che paga le tasse da vent’anni, facendo un lavoro magari poco gradito, pagando fior fiore di tributi, e uno, anzi, centinaia di migliaia che non lo hanno fatto? No, non può farlo. Non esiste una legge morale, né un solo principio filosofico che determini questa condizione.

In questi giorni ci viene ribadito, con orgoglio, che vengono spesi miliardi di euro per l’accoglienza (illegale) in un Paese che è in piena recessione. Può l’Italia, l’Europa, l’Occidente, supportare un afflusso giornaliero di migliaia, dicasi migliaia, di africani? Ogni giorno? Pensiamo che i confini delle nazioni siano stati tracciati da persone scellerate, oppure che dietro a ogni giurisdizione geografica, e politica, vi sia una logica?

Chiediamoci, pacatamente, ma con fermezza, se l’Europa potrà, entro il 2050, essere arricchita da 150 milioni di africani, per lo più poveri. Chiediamocelo, dietro l’ottusità che ci portiamo dietro, l’ottusità dei principi, l’ottusità di un idealismo staccato dalla logica, dalla realtà, dalla contingenza del possibile. Chiediamocelo e diamoci una risposta. Ma questa risposta deve valere sempre, anche il giorno delle elezioni.

Aggiornato il 26 luglio 2018 alle ore 12:36