Sergio Marchionne? Un grande canadese

Proprio non avremmo voluto parlare della scomparsa di Sergio Marchionne. Ma a tutto c’è un limite. Anche alla pazienza. Assistere alla santificazione che si sta facendo del manager fresco defunto, come se tutti lo avessero amato e stimato, è un esercizio di assoluta ipocrisia, francamente insopportabile. Perché parlarne a tutti i costi? Un po’ di rispetto per la riservatezza, no? Proprio non si riesce a non mettere becco nelle vite, e nelle morti, degli altri per dire qualcosa d’inutile?

Marchionne non è stato uno statista o un benefattore dell’umanità. È stato un uomo d’azienda preparatissimo e particolarmente brillante. Spetta a chi ha interagito con lui o con le sue scelte esprimere un giudizio sul suo valore umano e professionale. È legittimo che di Marchionne parlino gli azionisti delle grandi imprese per le quali ha lavorato. Al più, è giusto che esprimano un giudizio gli stakeholder le cui sfere giuridico-patrimoniali-esistenziali sono state influenzate dalle sue azioni imprenditoriali. Di lui ne parlino i lavoratori, se credono, delle aziende che l’hanno avuto al vertice. Si esprimano quelli che, grazie a lui, hanno beneficiato di un ambiente di lavoro migliore e di una stabilità occupazionale più certa, ma anche quelli che hanno pagato di persona i suoi tagli e la chiusura delle unità produttive. Lo commemorino i sindacati, soprattutto quelli che hanno preso pedate da Marchionne, come la Fiom-Cgil, e la Confindustria che è stata mandata beatamente a ramengo da lui. Ma gli altri la smettano di dire amenità. In particolare, diano un taglio alla storiella di Marchionne grande italiano. Ora che è morto giochiamo a rubamazzetto? Perché fregargli a tutti i costi la biografia per appuntarsi al bavero del sistema-Paese indebitamente una storia di successo individuale? Marchionne è sì nato in Italia, a Chieti, ma dall’Italia se n’è andato fanciullo, da emigrante. È il Canada il Paese che lo ha accolto e gli ha offerto le migliori opportunità per sviluppare il suo talento. Marchionne ha conseguito tre lauree: in Legge alla Osgoode Hall Law School of York University di Toronto, in Business Administration (MBA) alla University of Windsor e in filosofia all’Università di Toronto.

Ha cominciato in Canada la vita professionale da avvocato. Lasciata la libera professione ha lavorato da dirigente per la newyorkese Deloitte Touche Tohmatsu, la prima azienda al mondo di servizi di consulenza e revisione contabile. Sul finire degli anni Ottanta è stato director dello sviluppo aziendale del Lawson Mardon Group di Toronto. Poi alla canadese Glenex Industries da vice-presidente esecutivo. L’approdo in Svizzera avviene a seguito dell’acquisizione del Lawson Group da parte di Alusuisse Lonza, nel 1994. Nel 2002 è nominato amministratore delegato del Gruppo SGS di Ginevra, un colosso della consulenza aziendale da 46 mila dipendenti in tutto il mondo che Marchionne riesce a portare ai massimi risultati. Ed è in quella posizione che viene notato da Umberto Agnelli che pensa di inserirlo nel Consiglio d’Amministrazione di una Fiat ormai morente. È il 2003. Fino ad allora l’emigrato Marchionne l’Italia l’aveva rivista in cartolina. Nulla lo lega alla terra natale che non gli ha dato niente se non qualche triste ricordo da tenere stretto nel cuore. Il padre carabiniere, un orgoglio che Marchionne non cancellerà mai dalla sua vita. “Volevo andare alla Nunziatella a fare il carabiniere, l’ufficiale. Poi la storia ha preso un’altra piega” ha confessato una volta, in una delle rare occasioni nelle quali ha parlato della sua vita privata.

Ma è l’Italia, il suo Paese, che non gli ha concesso chance. Come non ha protetto sua madre, profuga dall’Istria, che ha avuto la famiglia decimata dalle bande assassine dei comunisti di Tito. Da esule dalla sua terra ed emigrata dal suo Paese Maria Zuccon da Carnizza (Pola), figlia del merciaio del paesino, Giacomo, infoibato a Terli il 5 ottobre 1943, dall’Italia è stata tradita due volte. E come lei il suo Sergio. In coscienza, vi sembra questa la biografia di un “arcitaliano”? O piuttosto quella di un connazionale tradito dal suo Paese? Se è diventato un grande uomo è merito d’altri, non della sua terra natia. Da manager ha salvato la Fiat e l’ha fatta diventare un’altra cosa. Un’azienda globale, grazie all’acquisizione coraggiosa dell’americana Chrysler. Da capo dell’azienda asso-pigliatutto del settore automobilistico italiano, che tanto è costata ai contribuenti prima del suo arrivo, non ha mai preso un quattrino dallo Stato. Ha fatto il capitano d’impresa come andava fatto e di questo gli si deve rendere merito. Oggi Fca è un’entità economica globale grazie a lui. Ma d’italiano non ha più neanche la sede legale, figurarsi quella fiscale. Calcisticamente si è appassionato alla Juventus, quanto per amore della maglia o quanto per interesse a una collegata quotata in Borsa non è dato sapere. Perciò, sarebbe improprio definirlo un grande juventino. Lo stesso dicasi del suo rapporto con il mondo del “cavallino” Ferrari. Ne aveva fatto un suo spazio personale ma non è stato mai “mister Ferrari”. Non aveva le physique du rôle dell’aristocratico sabaudo mandato a Maranello a impersonare il peso della dinastia regnante degli Agnelli. Com’è stato invece per il titolatissimo Luca Cordero di Montezemolo, altro stile, grande charme. Canadese con residenza in Svizzera, Marchionne non ha mai desiderato tornare ad essere italiano. Lo si rispetti in morte come non sempre lo si è fatto quando era in vita e basta con la patacca del grande italiano. Se Marchionne è stato davvero grande lo è stato a modo suo.

Aggiornato il 27 luglio 2018 alle ore 11:36