Strage di Bologna: i depistaggi e l’onestà intellettuale

mercoledì 1 agosto 2018


Prepariamoci, da domani per un’intera giornata si tornerà a parlare di un terribile episodio di 38 anni prima, la strage di Bologna. E si tornerà a parlare dei depistaggi, dei mandanti politici, della Loggia P2.

Parole che viaggiano da anni senza alcuna onestà intellettuale. E senza alcuna logica che non sia quella ideologica. Nella città felsinea, inoltre, si prevedono le solite sceneggiate fatte di manifestazioni condite con fischi alle autorità politiche e con declamazioni a effetto. Tutto si vedrà e sentirà, come da 38 anni a questa parte, tranne un qualcuno che – a mo’ di imitatore di quel bambino che esclamò: “il Re è nudo” – si erga e dichiari, una volta per tutte, che di quella strage, al di là di una sentenza passata in giudicato che consegna alla storia tre colpevoli di repertorio, Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e l’allora minorenne Luigi Ciavardini (più un quarto in dirittura d’arrivo, Gilberto Cavallini, protagonista suo malgrado di un ennesimo processo fotocopia fuori tempo massimo), noi non sappiamo nulla. Anzi, non vogliamo saperlo.

E che i depistaggi ci furono, eccome se si furono, sebbene tutti ai danni di coloro che poi sarebbero stati condannati, ossia lo stato maggiore degli ex Nar, è cosa certa. Ma le vittime furono proprio quei “ragazzini” – all’epoca – pieni di rabbia esistenziale e di desiderio di vendicarsi contro tutto e tutti e quindi facili a essere incastrati fin da subito nelle manovre di depistaggio del Sismi della P2, come a sinistra amano tuttora chiamarlo. E a parte la storia arcinota del finto ritrovamento, il 13 gennaio del 1981, sul treno Taranto-Milano di armi ed esplosivo analogo a quello usato a Bologna, ci furono anche due vere e proprie esecuzioni ai danni di esponenti dell’estrema destra (più un tragico caso di scambio di persona in un ulteriore episodio) che nel piano di depistaggio ordito dal Sismi – preoccupatissimo che venisse fuori il cosiddetto Lodo Moro a favore dei terroristi palestinesi e arabi in Italia o le manovre di Gheddafi nel Mediterraneo – dovevano da morti essere incolpati della strage.

Il primo fatto risale al 6 gennaio del 1981. Alcuni uomini della Digos stanno appostati vicino all’abitazione dell’ex militante Nar, Pierluigi Bragaglia – a via Vallombrosa, a Roma in zona Cortina d’Ampezzo – che possiede una Renault 5 rossa. Poche ore prima era stato ucciso Luca Pierucci, militante di quello stesso gruppo armato, perché considerato un delatore. Arriva una Renault 5 dello stesso modello e colore di quella di Bragaglia – oggi rifugiato riconosciuto come tale in Brasile proprio come l’ex leader dei proletari armati per il comunismo Cesare Battisti – gli uomini della Digos aprono il fuoco ma uccidono la ventottenne Laura Rendina che stava sul sedile posteriore. In macchina c’erano due coppie appena tornate dal ristorante. Nessuna traccia di Bragaglia.

La caccia ai Nar – con ogni mezzo e con ogni modalità – era cominciata  ufficialmente all’inizio di settembre del 1980 quando vennero spiccati i mandati di cattura ai danni di tutti loro proprio per la strage di Bologna. La manovra orchestrata dal depistaggio del  Sismi era di far uccidere tutti quelli possibili per poi incolparli da morti. Manovra che se non era riuscita con Bragaglia, e a rimetterci la vita fu una povera donna innocente, andò in qualche maniera “meglio” con Pierluigi Pagliai e con Giorgio Vale. Pagliai, localizzato in Bolivia dal Sismi il 5 ottobre 1982, era un militante neofascista della vecchia guardia. Riparato in Sudamerica come tanti suoi camerati. Cinque giorni dopo viene ucciso da una calibro 22 con le mani alzate davanti alla chiesa “Nuestra Señora de Fátima” di Santa Cruz de la Sierra. Tornerà cadavere in Italia sullo stesso Dc9 dell’Alitalia che aveva portato il commando. Il 5 maggio di quello stesso terribile anno, il 1982, Giorgio Vale, un ventenne di Terza posizione, veniva crivellato di colpi a Roma nella casa “covo” di via Decio Mure 43 al Quadraro. Naturalmente alla stampa parlarono prima di “suicidio” e poi  di conflitto a fuoco, ma ben presto venne fuori che Vale non aveva sparato neanche un colpo mentre chi aveva fatto irruzione ne aveva esplosi quasi un centinaio, uno solo dei quali mortale, alla tempia dello stesso giovane terrorista.

La strage che “doveva essere fascista” per ordine dei servizi segreti militari che dovevano coprire il Lodo Moro e i patti coi gruppi armati terroristi palestinesi in Italia (che qualche giorno dopo l’esecuzione di Pagliai, il 9 ottobre 1982, avrebbero ucciso un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché, davanti alla Sinagoga di Roma) era stata certamente depistata. Ma le vittime del depistaggio erano stati proprio i militanti della destra eversiva.


di Dimitri Buffa