Aggressioni contro il personale sanitario, parla Cifaldi

giovedì 30 agosto 2018


Lo scorso 8 agosto è stato approvato dal Consiglio dei ministri un Disegno di legge che prevede l’istituzione di un Osservatorio nazionale sulla sicurezza di tutto il personale della Sanità e un’integrazione dell’articolo 61 del Codice penale che inserisce le circostanze aggravanti nei confronti di chi commette violenza o minacce contro gli operatori sanitari nell’esercizio delle loro funzioni. Il segretario nazionale della Cisl medici Biagio Papotto in più sedi aveva già fortemente richiesto che le aziende si costituissero parte civile a sostegno degli operatori lesi. Chiediamo un parere autorevole cominciando da un assunto al dottor Luciano Cifaldi, direttore sanitario della Asl Roma 5 di Tivoli, già direttore sanitario della Asl di Latina e direttore della Uoc di Oncologia dell’ospedale di Colleferro.

L’articolo 32 della Costituzione determina che ogni persona ha diritto alla cura delle malattie e tale diritto è, per definizione, volontario. Quando un paziente si rivolge ad un medico gli riconosce, sia pure implicitamente, l’autorità di eseguire atti, quali l’esame fisico, che normalmente nega agli altri e di prendere decisioni diagnostiche e terapeutiche (consenso alle cure). A suo giudizio questo è sempre valido?

L’alleanza fra paziente e medico non implica una delega totale a quest’ultimo: sono consentiti atti e decisioni che rispondono alla richiesta di aiuto qualificato, ma il paziente non può essere “privato del suo diritto e della sua responsabilità relativi al proprio destino”. Pertanto, i principi bioetici suggeriscono che prima di procedimenti o terapie di particolare impegno vengano date al paziente nella maniera più idonea informazioni chiare su ciò che si ritiene giusto fare per la sua malattia. Nel caso di un malato oncologico, ad esempio, la necessità della chiarezza deve essere mediata da sensibilità e modalità relazionali congrue che lo portino ad acquisire le notizie in modo sereno, equilibrato e leale. Solo dopo aver verificato che l’informazione sia stata ben compresa e che egli sia libero e capace di decidere, potrà essere raccolta per iscritto la sua accettazione degli accertamenti e delle cure proposte, cioè il suo “consenso informato”.

Se una volta il rapporto medico-paziente era quasi esclusivamente fiduciario, attualmente il paziente non si affida, ma tende a fidarsi, in linea di principio, del medico, salvo poi valutarne gli atti e i risultati in rapporto alle sue aspettative, alle esperienze di conoscenti, alle notizie tratte dai media: nella maggioranza dei casi questo atteggiamento sfocia nella fiducia, ma talora il risultato può essere un atteggiamento critico e astioso come dimostrano fatti di cronaca recenti, ed ormai quasi quotidiani, specialmente in settori quali la medicina d’urgenza e di pronto soccorso e la guardia medica. Per non parlare poi dell’aumento del contenzioso legale.

Al di là degli esecrabili comportamenti di violenza a danno degli operatori sanitari, argomento attuale e che investe molteplici soggetti istituzionali, è evidente che l’attività clinica quotidiana è costituita da una serie continua di decisioni ed ognuna si inserisce in un contesto organizzativo che può condizionare la decisione stessa. In questo contesto ci sono due protagonisti: il medico ed il paziente. Il rispetto del “principio di autonomia”, cioè della libertà del paziente di autodeterminarsi con riferimento alle scelte riguardanti la sua salute, è uno dei presupposti dell’etica medica. L’analisi di complesse problematiche, quali tutela della privacy, informazione e comunicazione, consente la definizione del fenomeno dell’empowerment, caratterizzato da una ridefinizione del “potere” tra i soggetti protagonisti della decisione clinica, in ordine a temi quali: autogestione della salute per il miglioramento della stessa, conoscenza dei propri diritti, completa informazione sui trattamenti proposti e sulle possibili alternative, confronto su “seconda opinione”. È chiaro però che in settori di frontiera quali i nostri pronto soccorso applicare questi concetti è difficile a fronte delle ormai quotidiane aggressioni. Occorre dotarsi di strumenti normativi nuovi ed attuali ed in questo senso anche la proposta del segretario generale della Cisl medici Papotto che chiede la costituzione di parte civile da parte delle aziende in caso di aggressione ai dipendenti è senz’altro meritevole di ascolto, così come la proposta formulata in altre sedi di attribuire la veste di pubblici ufficiali agli operatori dei pronto soccorso.

Lei ha citato il fenomeno dell’empowerment. Oggi, al professionista della salute si chiedono continui adattamenti per impiegare al meglio ogni risorsa, economica e non, disponibile: gli si chiede inoltre di utilizzare nel miglior modo possibile la comunicazione, per agevolare al massimo il cittadino-malato nel suo diritto di usufruire dei servizi erogati dal Servizio sanitario nazionale. Nelle strategie di marketing, si è soliti affermare che “non c’è mai una seconda occasione per fare una buona prima figura”. Applicando questa affermazione alla relazione medico-paziente, rapporto prioritariamente umano e solo secondariamente professionale, si potrebbe, a buon diritto, affermare che il percorso diagnostico-terapeutico del malato non potrà che essere influenzato dalla capacità del medico di aver saputo produrre una “buona prima impressione”?

Infatti uno dei punti critici è rappresentato dal collegamento e dall’integrazione di tutte le fasi del percorso assistenziale. Costruire un sistema in grado di offrire cura e assistenza sanitarie, coniugando obiettivi di qualità ed appropriatezza a politiche economiche, è un impegno perseguito da tempo dai diversi attori. Per soddisfarlo non basta partire da una corretta analisi della domanda sanitaria, ma si deve anche tener conto del livello di soddisfazione dei pazienti, la customer satisfaction, in termini di qualità percepita delle prestazioni e di espressione delle loro volontà. Agli occhi della collettività, il successo della prestazione medica appare sempre più configurarsi non solo come corretta diagnosi ed adeguata terapia, bensì come la sommatoria di fattori diversi, quali l’accoglienza di tipo alberghiero, la competenza, l’umanità e la comprensione da parte del medico e dell’intera equipe assistenziale e, paradossalmente solo in un secondo tempo, il risultato determinato dalla prestazione stessa. La soddisfazione del paziente deriva dall’impressione che egli ha riportato nell’impatto con la realtà sanitaria; e dipende, oltre che dalla durata di tale impatto, da una serie di condizionamenti dovuti a tutti gli aspetti, riconducibili alla prestazione richiesta, con i quali si è dovuto confrontare.

I mutamenti sociali degli ultimi trent’anni hanno profondamente modificato l’approccio dell’opinione pubblica ai temi della salute. Le nozioni di “salute” e di “qualità della vita” hanno assunto un significato più ampio rispetto alla mera assenza di malattia estendendosi a comprendere un concetto soggettivo non semplicemente misurabile, quale il concetto di “benessere”. Questo a suo giudizio può determinare una minore tolleranza dei pazienti e dei loro congiunti di fronte all’insuccesso di procedure terapeutiche e ciò a prescindere dalla facile sensazione di ipotetica malasanità?

È un tema centrale quello ora sollevato. La disponibilità acritica di una grandissima quantità di informazioni scientifiche e sanitarie, la vocazione sensazionalistica con cui, spesso, i media propongono le notizie attinenti ai temi della salute espongono il malato e i suoi familiari al rischio di aspettative non appagabili o, peggio, di facili e costose illusioni. Se il recente passato era caratterizzato dai “viaggi della speranza” come risposta ad esigenze che apparentemente si ritenevano non soddisfabili nelle strutture sanitarie di riferimento locale, oggi si assiste ad un vero e proprio “vagabondaggio” lungo le reti informatiche alla ricerca di siti dai quali trarre informazioni e speranze per affrontare la malattia. Può apparire paradossale ma l’era di Internet, si sta caratterizzando per una sempre maggiore carenza di comunicazione diretta tra le figure che storicamente sono deputate a svolgere ruoli primari in medicina. Articoli di stampa, trasmissioni televisive, proposte di terapie alternative, possono rappresentare momenti scatenanti nel determinare quell’autentico commercio della speranza nel quale sembra esserci posto per tutti, santoni e guaritori, maghi e visionari, mancati medici, millantatori e truffatori. È invece innegabile che,  nel cammino che il malato è costretto ad intraprendere, la trasmissione dell’informazione non potrà avvenire in un contesto neutro,  privo di elementi di affettività. Così la comunicazione di una diagnosi, di un possibile percorso terapeutico, di una prognosi severa, non può essere nella disponibilità di chiunque, essendo patrimonio tradizionale del medico. È anche questa umanizzazione delle cure.

Lei è un oncologo che da tempo svolge anche una attività manageriale nella sanità pubblica. Quale approccio comunicativo andrebbe usato coi malati e con i familiari?

Il cancro evoca emozioni enormi nei pazienti, nei loro familiari ed anche nei professionisti. Sono situazioni che si vivono quotidianamente nel corso dell’attività clinica, non frasi fatte o scontate ma frasi vere, realmente espresse, manifestazioni verbali filtrate dalla personalità dei singoli e della famiglia dove l’evento malattia è vissuto ed espressione di un carico emozionale di aspettative e di speranze. In oncologia esistono delicati equilibri, dove emozioni, pulsioni, aspettative, delusioni, rabbia, sconforto, illusioni sono elementi che mescolati tra loro in varia misura ed in tempi diversi ed “innescati” da articoli di stampa, trasmissioni televisive, esperienze riferite di terzi, proposte di terapie alternative, possono costituire una miscela ad altissima potenzialità esplosiva, capace di intervenire a vari livelli e con diversi effetti, sul paziente, la famiglia e i curanti, nel corso della storia di malattia. Ritengo che il momento più importante in questa relazione sia quello dove il paziente ed i familiari hanno la piena consapevolezza che in nessuna fase del cammino nella malattia resteranno soli ma che al loro fianco resteranno operatori sanitari seri, preparati e disponibili da un punto di vista umano oltre che professionale.

@vanessaseffer


di Vanessa Seffer