Caporalato: “Schiavi per sempre”

Pubblichiamo un estratto dell’inchiesta “Schiavi per sempre” tratta da ‘O Magazine e realizzata da Marco Omizzolo, infiltrato tra i lavoratori di origine indiana in provincia di Latina. Ieri sei italiani sono stati arrestati, grazie alla Squadra mobile di Latina in coordinamento con gli uomini del Servizio Centrale Operativo diretto da Alessandro Giuliano, per violazione della normativa sul caporalato e sono stati sequestrati beni dal valore di circa 4 milioni di euro realizzati illecitamente sulle spalle dei braccianti stranieri.

Lavorare in provincia di Latina, a stretto contatto con lavoratori e lavoratrici migranti considerati residuali nell’organizzazione sociale ed economica nazionale, soprattutto in questa fase politica in cui essi sono generalmente considerati dei criminali destinati a rubare le nostre libertà e ricchezze, significa fare esperienza diretta delle condizioni di vita e di lavoro di migliaia di persone e di un sistema economico e sociale che tiene insieme settori dell’imprenditoria agricola (e non solo), rappresentanti politici e interessi economici diffusi, a volte anche di natura mafiosa. Lavorare come bracciante infiltrato tra diverse squadre di braccianti indiani, in particolare sikh, in quelle campagne, al seguito di diversi caporali indiani e vari padroni italiani, restituisce la complessità di un fenomeno che ha radici nel Pontino ma anche in Punjab, regione indiana dalla quale proviene gran parte della comunità indiana sikh pontina.

Proprio in quella regione ho seguito un trafficante di esseri umani indiano ed ho studiato il complesso sistema di tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo che lega, in una stretta mortale, lavoratori indiani con l’Italia e, nello specifico, con la provincia di Latina. 

L’agroalimentare italiano vale complessivamente circa 246 miliardi di euro e rappresenta il 15,9 per cento del Pil nazionale. Secondo l’ultimo rapporto Agromafie e Caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto, risulterebbero in Italia circa 450mila lavoratori che vivono condizioni di disagio abitativo e sfruttamento lavorativo, di cui l’80 per cento migranti. Di questi, ben 100mila vivrebbero condizioni di lavoro para-schiavistiche. Secondo l’ultimo rapporto Agromafie di Eurispes e Coldiretti il volume d’affari complessivo annuale dell’agromafia sarebbe salito nel 2016 a 21,8 miliardi di euro con un balzo del 30 per cento nell’ultimo anno.

In questo sistema, per comprenderne le dinamiche e la complessità, sono stato bracciante infiltrato tra i braccianti indiani sfruttati come schiavi, scoprendo lavoratori impiegati anche quattordici ore al giorno, tutti i giorni del mese, tranne a volte la domenica pomeriggio, per retribuzioni che non arrivavano a trecento euro al mese. Questo mi ha permesso di osservare l’organizzazione di un sistema rodato in cui il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore è così inclinato da aver assunto, di nuovo, quello tipico che intercorre tra il padrone e il servo.

In alcuni casi vittime di tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo, i braccianti sikh sono obbligati a chiamare padrone il loro datore di lavoro e, a volte, a fare tre passi indietro e a chinare la testa quando si rivolgono a lui. Incidenti non denunciati, violenze e ricatti, truffe e l’obbligo di non parlare con giornalisti, sindacalisti e poliziotti.

Un sistema fondato sulla violenza e sull’omertà e che conduce a forme nuove di schiavitù. Alcuni indiani hanno subito violenze ed intimidazioni ed io con loro. Ad alcuni hanno tentato di dare fuoco, ad altri hanno rotto le gambe perché visti parlare con un giornalista o un sindacalista. Altri ancora sono stati selvaggiamente picchiati. E a me hanno distrutto quattro volte in due anni l’auto, accusato di essere un trafficante e un caporale, di farmi pubblicità con queste storie, dimenticando però i processi intanto aperti presso il Tribunale di Latina, gli arresti di datori di lavoro e caporali operati dalle forze dell’ordine, le denunce presentate dagli stessi braccianti indiani. In alcuni casi hanno tentato vere e proprie intimidazioni nei miei riguardi. Sono diversi mesi che vivo infatti sotto protezione da parte delle forze dell’ordine e questo per aver denunciato il grave sfruttamento lavorativo che caratterizza il pontino e non solo.

“Io sono sikh - dice Rajinder Singh, bracciante nelle campagne di Sabaudia - ma non porto il turbante perché il padrone non vuole. Il mio padrone mi deve 40mila euro. Credo che non li avrò più ma ho bisogno di quei soldi. Lavoro in una cooperativa agricola vicino Sabaudia, il lavoro è troppo duro e i soldi sono pochi. Prendo solo 400 euro al mese e ogni sera prego perché il caporale mi chiami per il giorno dopo”. Un sistema che solo la recente normativa (legge 199/2016) ha saputo aggredire, almeno sotto il profilo giudiziario. Una norma nata dopo la morte drammatica della bracciante pugliese Paola Clemente e la rivolta proprio dei braccianti indiani e che ha avuto nello sciopero del 18 aprile del 2016 il suo apice. Oltre quattromila braccianti, infatti, si sono radunati, con l’ausilio della Cgil e della Flai Cgil, per reclamare giustizia e libertà. La prima gli è stata negata per anni anche grazie alla complicità di troppi avvocati, commercialisti, notai, consulenti del lavoro e altri professionisti, che hanno prestato i loro servizi e competenze a vantaggio esclusivo degli interessi deviati e criminali dei padroni e dei padrini della provincia di Latina.

Si chiamano padrini, infatti, tutti quegli affiliati a vari clan mafiosi che in provincia di Latina e non solo, continuano a gestire parte del sistema agricolo locale, a partire dalla produzione agricola per poi passare alla trasformazione e distribuzione (si pensi al Mercato Ortofrutticolo di Fondi). Questo fa dello sfruttamento dei braccianti indiani un ingranaggio di un sistema ben più ampio e complesso che arriva a produrre non solo profitti e denaro illecito, ma anche consenso sociale e politico. Tutto questo mentre la loro vita, come raccontato dal recente documentario The Harvest (Smk videofactory), è costantemente caratterizzata da vessazioni e intimidazioni. Gli atti intimidatori, infatti, sono ripetuti come anche le spedizioni punitive nei confronti dei braccianti indiani che cercano di ottenere quanto spetta loro. Vi sono decine di casi denunciati. Intimidazioni in pieno stile mafioso. Ad alcuni lavoratori hanno tentato di dare fuoco o sono stati aggrediti e picchiati perché reclamavano stipendi arretrati.

Alcuni braccianti indiani vengono anche indotti, come ho rilevato diverse volte, ad assumere sostanze dopanti come oppio (semi di papavero contenuti in bulbi essiccati), metanfetamine e antipastici.

Lavoro 12-15 ore tutti i giorni. Raccolgo cocomeri, meloni e pomodori. È un lavoro molto faticoso - dice Baljinder Singh, bracciante indiano residente a Terracina - e il padrone mi dà pochi soldi coi quali devo vivere con la mia famiglia. Molti indiani hanno dolori molto forti alla schiena, alle mani, al collo, agli occhi perché sul viso hai sempre terra, sudore e anche prodotti chimici e veleni. Ogni mattina la schiena sembra spezzarsi. Ma dobbiamo lavorare per forza. Se chiedo un giorno di riposo il padrone mi sostituisce con un altro bracciante indiano. Sono sette anni che faccio questa vita. Alcuni indiani che lavorano con me prendono una piccola sostanza per non sentire dolore. La prendono una o due volte al giorno così smettono di sentire i dolori e continuano a lavorare senza rallentare. Lo prendono per non sentire la fatica ed essere richiamati dal caporale il giorno dopo a lavorare”.

Buste paga e contratti di lavoro in regola per braccianti impiegati, apparentemente regolari, dove però il lavoratore risulta impiegato per sole quattro giornate al mese a fronte delle 30 in realtà lavorate. Il resto delle ore di lavoro sono sommerse, segnate a matita su pezzi di carta, con costi orari lontani da quelli previsti dal contratto nazionale. Sono storie che difficilmente diventeranno ragioni per la classe politica per una riflessione nel merito dei processi che le incardinano nel sistema economico e sociale vigente. Sono destinate a restare periferiche, o meglio, possono emergere solo rompendo l’omertà e le intimidazioni che le vincolano. E per chi come me le ha vissute tutte, o quasi, da circa 15 anni, ciò significa avere il coraggio prima che intervenga la competenza per costruire modalità conflittuali che comprendono lo sciopero, la denuncia, la vertenza. Perché ai caporali, padroni e mafiosi si deve sempre rispondere con un no. Chi scende a patti con questi criminali finisce sempre per restare intrappolato nella loro ragnatela. E i braccianti indiani lo sanno bene.

 

Aggiornato il 17 gennaio 2019 alle ore 17:45