Bisignani: “Ho patteggiato per mia figlia, mai conosciuto Saladino”

venerdì 11 ottobre 2019


“Con Antonio Saladino siamo finiti in un’inchiesta kafkiana, non ci siamo mai conosciuti – di lui so solo che in Calabria è considerato come un benefattore – eppure l’allora pubblico ministero Luigi De Magistris era convinto che gestissimo insieme un’organizzazione segreta”.

Luigi Bisignani parla delle inchieste cosiddette “P3” e “P4”, conclusesi praticamente in un nulla di fatto, tanto per lui quanto per Saladino. “Io ho solo dovuto patteggiare dei reati minori per uscire subito da questo incubo e sono stato costretto a farlo dal tumore che aveva colpito mia figlia che aveva bisogno del mio aiuto, e lo rifarei altre mille”.

Bisignani, che cosa può dire di queste inchieste sulla P3 e sulla P4 che la hanno coinvolta con tanto clamore mediatico ma che poi alla prova dei fatti…

“Per quel che riguarda la P3 era un’inchiesta incredibile in cui ero stato coinvolto in un piccolo episodio subito archiviato. L’ipotesi di reato era surreale se non incredibile: avere brigato per fare avere dei finanziamenti a delle piccole imprese in Calabria dalla comunità europea. In realtà un’inchiesta mediatica: De Magistris mi attaccava pubblicamente dicendo che ero stato io l’artefice dei suoi problemi disciplinari con il Csm. Tengo comunque a precisare che io mai mi ero occupato né di Calabria, né di piccole imprese e tantomeno della Comunità europea. Il reato ancora non ho capito neanche quale fosse”.

E come andò a finire?

“I giudici non credettero alle ipotesi dell’accusa e il caso fu archiviato. Tra le cose incredibili di quell’indagine i miei presunti e pretesi rapporti con il signor Antonio Saladino, che io non avevo mai conosciuto e che tuttora non ho avuto il piacere di conoscere. Mi dicono, essendomi per forza di cose dovuto informare su di lui, che in Calabria tuttora viene considerato come un benefattore”.

E la storia della cosiddetta P4?

“Fu una storia molto più lunga che partiva da una serie di intercettazioni telefoniche che oggi definiscono ‘a strascico’, come l’omonima pesca, e che ipotizzava un’associazione segreta che doveva sovvertire lo stato e spiare le istituzioni. In quel caso non potei difendermi appieno perché fui costretto a scegliere la strada del patteggiamento in quanto dovevo accompagnare mia figlia in Giappone per operarsi di un tumore al cervello... e le esigenze della giustizia e della tutela della mia onorabilità passarono in secondo piano. Sapevo che solo patteggiando sarei potuto uscire presto da quell’incubo...”

E che cosa dovette patteggiare?

“Avere usato delle schede telefoniche e poi internet per spiare noti personaggi della politica, una assurdità per chi mi conosce anche perché io il computer, il web e i telefonini li utilizzo da principiante. Mai avuto uno smartphone, per capirci”.

Se oggi qualcuno le chiedesse di accettare di nuovo quel tipo di patteggiamento, cosa risponderebbe?

“Nelle stesse condizioni di allora direi di sì. I tempi della giustizia sono talmente lunghi e le conseguenze di quello stallo così implacabili che io non avevo altra scelta se volevo aiutare mia figlia”.

Insomma, questo tipo di inchieste mediatiche e dai tempi lunghissimi mettono a rischio anche la stessa vita dei cittadini imputati?

“Sì. Non c’è dubbio. Se uno non è un pubblico ufficiale, e io non lo ero, preferisce, specie in condizioni di emergenza, avere una macchia sul casellario giudiziario che un’intera vita devastata insieme a quella dei propri familiari”.

Ma su cosa si basavano le inchieste che l’hanno riguardata?

“Come dicevo prima sull’equivoca interpretazione di migliaia di intercettazioni telefoniche, che una volta sbattute sui giornali producono effetti che poi in giudizio vengono ampiamente ridimensionati. Oltretutto oggi c’è una psicosi diffusa, tanto che al telefono sembrano tutti sospetti”.


di Dimitri Buffa