Cinema e Psiche, parla Maria Antonietta Coccanari de’ Fornari

Sarà stato un caso che all’inizio del secolo scorso, mentre Sigmund Freud coniava il termine “psicanalisi” i fratelli Lumiere stavano inventando il cinema? Non si può negare che nei film spesso si indagano le difficoltà umane, gli aspetti più nascosti della personalità dei protagonisti e quindi della mente. Allora perché non usare il cinema come strumento di cura, dato che il rapporto tra il mondo della psiche e il cinema è così stretto? Il cinema dunque in questo modo è vicino alla mente umana non solo per esplorarne i meandri più oscuri, ma per mettersi al servizio di essa: diventa cinema-terapia, medicina d’immagini e suoni, che si fa di esso stesso cura e veicolo di guarigione. È ciò che ha pensato la professoressa Maria Antonietta Coccanari de’ Fornari, pioniera di questo progetto ben 25 anni fa presso la struttura del Policlinico Umberto I dove ha lavorato e dove ha insegnato per ben 35 anni. La sua passione è sempre stata l’arte. Ha scritto e studiato molto su questo filone umanistico. Quando ci si è accorti che la nuova psichiatria, dopo la Legge Basaglia, si muoveva sul recupero della qualità di vita della persona, attingendo anche dagli antichi manicomi modello dove c’era l’atelier, la pittura, la musica, i balli, la coltivazione dei fiori. 

Ne parliamo con la professoressa Coccanari dal momento che ha cominciato la sua carriera di docente insegnando Storia della Medicina, poi Storia della Psichiatria e a seguito del nulla osta del Consiglio di Facoltà, Psichiatria. Ha curato per 25 anni pazienti dai 18 anni in su, più che altro giovani. Sono sempre più i giovani che hanno bisogno di cure in questo settore e quindi chiediamo alla professoressa come ha iniziato questo percorso di interazione fra terapia tradizionale e cinema come elemento di evasione per alleviare la sofferenza psichica, affiancandolo al trattamento medico consueto e poi come erano gli antichi manicomi arabi, che sembra utilizzassero anche loro questi metodi, unendo le terapie mediche allora conosciute con l’arte.

La riabilitazione psichiatrica, che in parte ha applicato delle tecniche psicoeducazionali attinge alle antiche strutture che nascevano con “buone intenzioni”. Poi il sistema li ha trasformati. Pare avessero delle espressioni modernissime, che usassero già nell’antichità l’arteterapia, nelle misure consentite dal tempo, non c’erano gli psicofarmaci, però gli arabi sono stati sempre al primo posto nella storia della medicina in generale e si sa i primi ospedali arabi hanno utilizzato questi sistemi. Probabilmente ci sono state delle esperienze di settore, non c’è molta documentazione, ma forse si, sembra usassero anche negli altri reparti degli ospedali la musicoterapia. Noi abbiamo recepito tanto dalla cultura araba, anche tante parole, come “sciroppo”. Ho insegnato Storia della Medicina per tanti anni e la medicina araba fa certamente scuola.

Come si inserisce la parte cinematografica nell’arteterapia applicata alla psicoterapia?

Ho fatto anche gruppi di biblioterapia, scrittura, musica, disegno, psicodramma. Ma ho privilegiato il cinema perché da bambina l’ho sempre amato e i miei genitori mi portavano al cinema anche due o tre volte alla settimana. Poi ho avuto diversi incontri significativi con dei cinefili puri, quindi il mondo mi ha portato verso una selezione degli interessi a privilegiare il cinema rispetto ad altro. Ho curato anche l’invenzione delle fiabe, abbiamo costituito un gruppo per questo. Cominciavamo con l’inizio di una fiaba nota e il gruppo la componeva a suo piacimento. Ho una Cenerentola scritta dai pazienti che è davvero meravigliosa! Ecco che l’orientamento per il cinema nasce in effetti per un mio interesse personale. Tutto ciò che è arte e letteratura ha sempre colpito il mio interesse.

I risultati si vedono realmente?

Si vedono perché facciamo delle schede che ci permettono di fare delle valutazioni, di controllarne i progressi. Come lo stesso rettore Eugenio Gaudio ha detto in un libro dove lui è titolare della prefazione, abbiamo dato “un’impronta moderna alla terapia”.

I manicomi poi hanno fallito miseramente, tutti.

È vero, ma per ragioni politico-sociali ed anche economici. Nascevano con ottime intenzioni, in posti splendidi, studiati perché i luoghi stessi dovevano ricreare armonia interiore. Se si va in una stanza disordinata e poi in una stanza perfettamente ordinata già cambia lo stato d’animo. Era messo in conto tutto. Ma hanno fallito, per ragioni diverse da quelle per cui erano destinati.

Dove si svolgono fisicamente questi momenti di incontro e come avviene la visione del film, durante incontri individuali o di gruppo?

Per 25 anni mi sono occupata anche del Day Hospital (Dh) psichiatrico ed è qui che si fa il trattamento integrato, dove all’aspetto biologico, tecnico come i farmaci, la testologia, si affianca una parte psicologica, sia di colloqui individuali, sia di gruppi, che rappresentano un discorso molto centrale del Day Hospital. Il Day Hospital è uno dei luoghi della riabilitazione psichiatrica. Con la legge 180, poi confluita nella 833, c’è stato un riordinamento anche dei posti deputati al recupero. Così mi sono interessata anche dei gruppi e di arteterapia, perché i gruppi possono essere psicoeducazionali, di discussione. Noi facciamo due gruppi al giorno. All’interno di questi gruppi c’è anche quello di terapia attraverso il cinema. Bisogna essere precisi. Sono dei coadiuvanti, non si può fare una terapia di uno schizofrenico attraverso il cinema, voglio essere chiarissima. Si tratta di un trattamento “integrato” dove però nell’arteterapia il cinema, che è la più complessa delle arti, perché racchiude la visione, l’ascolto, la scrittura, è un’arte che riassume tutte le altre che l’hanno preceduta. Perciò abbiamo fatto parecchi studi per vedere se, utilizzando in maniera appropriata la visione dei film o l’ascolto di colonne sonore associate ai trailers, avessimo avuto risultati incoraggianti. Tra le arti il cinema è quello che ho curato più di tutti, per vedere se può avere un’efficacia su una rimodulazione del concetto intanto di stigma nella persona, cioè discutendo, dopo aver fatto un’attenta selezione dei film però, quindi discutendo poi del film tutti insieme, se la persona può rivedere il suo concetto di malattia. Perché in questo i film sono portatori di tanti messaggi. Ce ne sono tanti che trattano proprio l’argomento. Inoltre, se discutendo si possono trovare nuove forme di soluzione dei problemi. Perché scegliamo film che sono un po’ come le fiabe, che abbiano un buon finale, aperti alla speranza, alla possibilità che puoi essere attraversato dal dolore senza rimanerne schiacciato.

Che tipo di paziente e con quale tipo di malattia mentale ci stiamo confrontando? Quando e a chi si può proporre questo tipo di terapia integrata?

A tutti i tipi di pazienti. Il segreto è la selezione del film. Bisogna tener conto dell’uditorio, non tutti possono vedere lo stesso film. Alcuni film possono essere fruiti da un certo tipo di paziente e non da altri, a seconda della gravità della malattia, il tipo di contenuti delle problematiche devono essere posti con attenzione. Per un fatto fondamentale che i nostri pazienti non sono un gruppo che ha in Day Hospital una durata determinata, le indicazioni per un Dh sono diverse, si può venire per dirimere un dubbio diagnostico, per aggiustare una terapia, per controllare segni di crisi, per sfruttare gli aspetti della riabilitazione e i tempi sono un po’ più lunghi, però i pazienti sono di tutte le diagnosi e di tutti i tipi di durata e di indicazione che ho detto. Allora è un gruppo aperto, dove la persona può andare via anche il giorno dopo, un’altra dopo un mese o due, un altro dopo una settimana, allora non si possono proporre delle opere d’arte troppo ansiogene, perché non ci sarebbe il tempo di farle elaborare, che è ciò che accade in gruppi strutturati in un’altra maniera. Si tratta di gruppi esterni nei quali ci si può iscrivere, lì si fa terapia di gruppo piuttosto che individuale per la durata di un anno e già si precostituisce un’idea di temporalità e si possono sviluppare nel tempo delle discussioni. Se una persona la si espone ad un film un po’ traumatico e il giorno dopo non lo vedi più magari abbiamo aperto delle ulteriori problematiche che non potrà essere capace di elaborare, non è quello il setting.

Queste persone che sono ricoverate per mezza giornata, un giorno o per il tempo necessario a seconda del problema, da dove arrivano. L’utenza come arriva qui da voi?

È ubiquitaria, alcuni prendono treni da L’Aquila o Napoli tutti i giorni. La nostra struttura universitaria tiene conto delle competenze territoriali, adeguandosi al sistema di spese. Vengono inviati da privati, dai nostri ambulatori, perché noi facciamo anche ambulatorio, dalle Asl, essendo diventata competenza territoriale dovrebbero venire dalla Asl di appartenenza. Il Day Hospital è associato all’Spdc (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura) che per legge deve avere un Day Hospital. L’Spdc è territoriale, poiché ci si deve ricoverare nell’ospedale del territorio di competenza, così anche il Dh risponde a questi criteri ma in maniera più elastica perché il Dh è universitario e l’SPDC è regionale. Con un solo capo universitario che è Direttore di tutta la struttura universitaria che è il professor Massimo Biondi.

Un paziente di una Rems potrebbe partecipare ad un progetto del genere?

Orientativamente direi di no, nonostante le utenze siano diverse, è vero che ci sono tanti tipi di pazienti ma non proprio cronici. Questo tipo di terapia ha un’idea felice di prevenzione, secondo l’idea di cura americana, quindi sono i giovani gli utenti migliori su cui si può intervenire più efficacemente in maniera integrata.

Grandi artisti, pittori, musicisti, attori, scultori, attuali e di secoli fa, straordinari produttori di opere d’arte, sono state persone “disturbate” che però ci hanno saputo donare opere che hanno cambiato addirittura la nostra visione del mondo. C’è bisogno della sofferenza per esprimersi al meglio?

Bisognerebbe leggere delle pagine di Lombroso, illuminanti sul genio e la produttività artistica. Non credo proprio, ci sono scrittori come Ariosto. Premesso che anche da noi sono venuti artisti, ma questo non c’entra. Chiunque invece può esprimersi attraverso l’arte. La maggioranza sono persone comuni, senza particolari talenti che però esprimono e sublimano una forma d’arte. Il fatto che ci siano una serie infinita di personaggi che hanno prodotto capolavori, grandi geni anche della matematica, c’è un film Beautiful mind, non è detto che genio e follia vadano a braccetto, quella è un’interpretazione romantica, è che hanno tutte e due le cose ma una non influenza l’altra. Ricordo un titolo su una testata nazionale del professor Volterra, mio grande maestro, il quale diceva “Sono un po’ depresso, sono un po’ genio”. C’è tutta una letteratura che dice che una persona malinconica per riparazione può andare verso la creatività. Uno dei meccanismi di uscita dalla malinconia può essere la creatività. Ma per essere creativi a livelli molto alti è necessario un talento. Non sono collegate le due cose. All’inizio del Novecento ci fu un grande congresso sulla creatività in Europa, cui parteciparono i più grandi studiosi, psicologi, sociologi, storici del tempo, ognuno diceva la sua. Chi diceva che per essere creativi bisognava essere folli, chi depresso, chi diceva che bisognava aver avuto una vita difficile. Popper disse “Pensiamo due persone che a parità di suggestioni ambientali, uno fa il matto e l’altro fa il vascello fantasma”. Poi concluse “L’atto creativo non si presta a nessuna spiegazione psicologica, è un dono degli dei”. Questo è rimasto scolpito nella mia memoria.

@vanessaseffer

Aggiornato il 12 novembre 2019 alle ore 12:30