Il dopo Covid-19: ripensare la vita in città

Pandemie o epidemie sono sempre nuove e pericolose, ma tutte, prima o poi, come ci insegna l’esperienza, vengono debellate. E così sarà, speriamo, anche per Covid-19. Ma mentre si contano ancora i morti e si prendono le misure per impedire la diffusione del virus in attesa di trovare il vaccino giusto, si pensa al day after e – cosa davvero preoccupante – a come cambiare le nostre abitudini di vita specie nei grandi agglomerati urbani e industriali. Si parla di uno stato di permanente allerta e distanziamento sociale, di obbligo di mascherine e restrizioni nei rapporti interpersonali e pubblici; si dice che la nostra vita non sarà più come prima e che dobbiamo abituarci a convivere con il virus. Forse si esagera per indurre la popolazione a una maggiore consapevolezza e prudenza in questa fase di ripresa delle normali attività. C’è da augurarsi che sia davvero così perché diversamente sarebbe molto triste e preoccupante per le libertà umane. In ogni caso l’esplosione del Coronavirus ci ha riproposto drammaticamente un vecchio problema mondiale: l’inquinamento ambientale e la conseguente esigenza vitale di assumere comportamenti e modi di vita più rispettosi del nostro habitat.

È bastato raffrontare le fotografie delle grandi città, comprese quelle cinesi, prima e dopo un mese di “blocco” per avere la prova lampante di quanto le nostre abitudini, a cominciare dagli spostamenti quotidiani, impattino negativamente sul nostro habitat. Certo non appare realistico pensare di chiudersi in casa rinunciando alla mobilità o di abbandonare in massa le grandi città e i siti industriali per fare ritorno alla natura, magari andando a ripopolare e recuperare – come ipotizza il fantasioso urbanista, professor Stefano Boeri – i mille e più borghi antichi di cui è ricca l’Italia, altrimenti destinati al totale degrado. Ma qualcosa va fatto. Altri “esperti” ipotizzano una progressiva disurbanizzazione decentrando o delocalizzando alcune attività e favorendo un’inversione di tendenza, un controesodo dal centro alla periferia. Del resto il tema del sovraffollamento delle città e di quanto ne deriva per l’uomo e la natura – dal tempo perso nel traffico urbano all’inquinamento e riscaldamento terrestre – purtroppo non è nuovo. I tentativi di soluzione sono stati, nel tempo, numerosi e variegati per lungimiranza e originalità. Senza risalire alle origini “storiche” del problema basta ricordare la creazione di Roma-Eur, durante il “ventennio”, o di Brasilia negli anni Sessanta o, ancora, il “telelavoro” dello scienziato americano Jack Nilles nei primi anni Settanta, sia pur in risposta alle necessità di risparmio energetico poste dalla prima grande crisi petrolifera.

Venendo ai giorni nostri va ricordato a esempio un originale, concreto “contributo” offerto, già una dozzina di anni fa, da un gruppo di ricercatori italiani, promosso da Livio Mariotti, “imprenditore informatico di esperienza internazionale impegnato da oltre 30 anni nel settore dell’Information Technology”. Il “gruppo di ricerca”, studiando un nuovo modello di reclutamento e impiego delle risorse umane applicate alle nuove tecnologie informatiche, ha elaborato una possibile linea di azione volta al riequilibrio dello sviluppo economico sociale e al miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini; ovvero una nuova organizzazione del lavoro e dei comportamenti nelle nostre città che, da una parte veda rimossi o limitati i fattori negativi, come il traffico, il sovraffollamento, l’inquinamento, e, dall’altra, perseguiti quelli volti a un miglior equilibrio tra produttività e qualità della vita, tra Pil e Bil (benessere interno lordo). La ricerca – condotta anche sulla base delle idee di una “Nuova geografia del lavoro” del professor Enrico Moretti, noto economista della Berkeley University of California – ha prodotto varie misure concrete come l’applicazione di tecniche di best matching (il lavoro a chilometro zero, ovvero il lavoro migliore più vicino a casa); l’applicazione modulare e parziale (un giorno a settimana) del telelavoro sulla base degli “aggiornamenti” compiuti in materia dal professor Domenico De Masi, uno dei massimi esperti in materia.

Inoltre ha proposto un progetto di decentramento molto concreto – ben accolto già da alcune Regioni – fondato sulla collaborazione pubblico-privato (comuni e aziende) per il trasferimento del lavoro, dalle grandi città a quelle medio piccole dell’area metropolitana-regionale. Come? attraverso la realizzazione di “centri di formazione e produzione d’eccellenza e di alta tecnologia” capaci di offrire, specie ai giovani, oltre al lavoro, una migliore qualità della vita con più tempo libero (recuperato dall’abbattimento sostanziale delle distanze casa-lavoro) e una serie di servizi agevolati, primo tra tutti la casa. Filosofia, analisi e soluzioni di questa “linea d’azione sociale” sono illustrate dettagliatamente in due libri curati dallo stesso Mariotti: il primo, edito nel 2010, “Metti il Pil nel frullatore” (per “ricavare un prodotto umano di qualità”); il secondo, più recente, “Data Science”, sull’utilizzo dei dati per migliorare il Welfare. “Oggi è il Covid-19 a imporci nuovi comportamenti – dice Mariotti – ma in realtà è un’esigenza vitale presente da tempo legata a una riflessione profonda sui tanti, troppi squilibri della nostra società. Siamo tutti sempre pronti a criticarci e a dividerci. Di fronte ai problemi comuni occorre trovare risposte comuni sfruttando le nuove tecnologie in progetti innovativi, volti ad accrescere la vivibilità, il benessere e soprattutto l’umanità nelle nostre città e non solo”.

Aggiornato il 01 giugno 2020 alle ore 11:30