Le insidie dell’invidia al tempo del Coronavirus

Sulla “passione triste” dell’invidia, com’è stata recentemente definita, si è scritto molto. Secondo Baruch Spinoza, per esempio, “l’invidia è quella disposizione che induce l’uomo a godere del male altrui e a rattristarsi, al contrario, dell’altrui bene” (Etica ordine geometrico demonstrata, parte III, prop. 24). Dopo aver citato in epigrafe questo passo dall’Etica di Spinoza, nel suo Vizi capitali e nuovi vizi, Umberto Galimberti osserva, sin dall’inizio del capitolo dedicato all’invidia, come questa sia forse “l’unico vizio che non dà piacere”. Ciò nonostante, il sentimento dell’invidia “è molto diffuso e ciascuno di noi ne ha fatto esperienza per aver invidiato o essere stato invidiato”. Più che un vizio, l’invidia sembra “un meccanismo di difesa, un tentativo disperato di salvaguardare la propria identità quando si sente minacciata dal confronto con gli altri. Un confronto che l’invidioso da un lato non sa reggere e dall’altro non può evitare, perché sul confronto si regge l’intera impalcatura sociale”. Parafrasando ancora Spinoza, Galimberti ci ricorda come questo sentimento tenda “a contrarre l’espansione degli altri per l’incapacità di espandere se stessi, per cui è un’implosione della vita, un meccanismo di difesa che, nel tentativo di salvaguardare la propria identità, finisce per comprimerla, per arrestarne lo slancio”.

Si tratta quindi di “una strategia sbagliata”, che nel tentativo di sottrarci a un confronto umiliante lo rinnova con effetti che si rivelano a un tempo distruttivi e autodistruttivi. A questo vizio avrebbe dato, secondo Friedrich Nietzsche, un notevole impulso il cristianesimo, che pure annovera l’invidia tra i suoi peccati capitali. Nel mondo greco precristiano si tendeva ad ammirare la grandezza dei migliori, e l’ammirazione, lungi dal costituire una forma di asservimento o di subordinazione, costituisce il tentativo di assimilare e fare proprie le qualità che si riconoscono superiori alle proprie. Gli avversari allora potevano essere combattuti e anche uccisi, ma al tempo stesso il loro valore veniva sempre riconosciuto e apprezzato: “la relazione sociale era contrassegnata da un forte antagonismo, ma insieme scevra da invidie”. Quando al paganesimo greco-romano, che era capace di ammirare la virtù, subentra il cristianesimo, “che diffonde il principio dell’uguaglianza fra tutti gli uomini”, nasce l’invidia. Quando infatti il cristiano, che si sente parte di una comunità di eguali di fronte a Dio, si accorge che una persona s’innalza sopra gli altri per le sue qualità morali e spirituali, tende a riabbassarlo al livello medio della comunità, perché non tollera che “agli uguali le cose non vadano in modo uguale”. Una reazione simile di fronte a prerogative fuori dal comune, di fronte alle qualità eccezionali di alcuni individui, si sarebbe poi diffusa, secondo Helmut Schoeck, tanto nelle società comuniste che in quelle capitalistiche. Nelle prime, “l’invidia proletaria” avrebbe la funzione di eliminare le differenze che l’ideologia comunista considera residui della mentalità borghese; nelle seconde servirebbe a sviluppare quello spirito competitivo che costituisce una condizione fondamentale per il buon funzionamento dell’economia di mercato.

Anche queste osservazioni di Schoek possono indurre a considerare, come fa Salvatore Natoli, l’invidia come “quel sentimento che non sopporta il proprio limite naturale in forza di una ragione sociale, perché è la società che decide del valore degli individui”. Le società capitalistiche tenderebbero in questo senso a rafforzare questo vizio, perché gli individui potrebbero meglio saper accettare i propri limiti se non avvertissero il rischio di poter divenire per questo socialmente irrilevanti in una società che fa della competizione la sua norma motrice. In questo contesto, secondo Natoli l’invidia si rivela una sorta d’impotenza relazionale, che sorge dal confronto implicito che l’individuo anche inconsapevolmente propone tra le sue caratteristiche più peculiari e quelle da cui passa ogni riconoscimento da parte della società; e questa è anche “la ragione – secondo Galimberti – per cui l’invidioso è costretto a nascondere il suo sentimento e a non lasciarlo mai trasparire, perché altrimenti darebbe a vedere la sua impotenza, la sua inferiorità e la sua sofferenza”.

In questo senso l’invidia, più che un vizio capitale, è un indotto sociale: essa è un sentimento “inutile”, perché non approda alla valorizzazione di sé, e “doloroso”, perché “rabbuia e impoverisce il mondo”, ma anche “un sentimento che bisogna tenere ‘nascosto’, senza quindi il conforto che può venire dalla comunicazione”. La genesi della dinamica psicologica che rende possibile la trasformazione di questo timore individuale di un mancato riconoscimento sociale nella condizione d’impotenza e di spesso misconosciuta sofferenza che caratterizza l’invidia è ricondotta da René Girard all’originario mimetismo che caratterizza il desiderio umano. L’invidia dipende infatti essenzialmente dalla rivalità mimetica, che in tempi di crisi, come quello in cui ci troviamo, può subire impennate impressionanti. Chi è più colpito dalla crisi, e magari era fino a poco tempo prima invidiato, diviene infatti rapidamente produttore d’invidia verso coloro cui la sorte o il tipo di professione ha garantito protezioni e tutele più efficaci. In questa gara collettiva, in cui il sentimento dell’invidia entra in competizione con quello della responsabilità e della solidarietà sociale, molte scelte politiche ed economiche sono portate a tener conto più di questa “passione triste” che di altre disposizioni d’animo più nobili e ragionevoli, e ciò per il semplice fatto che essa tende a manifestarsi in maniera più incisiva e vistosa.

Il voler assecondare gli umori indotti dall’invidia, il volerla cavalcare politicamente, rischia tuttavia di generare gravi errori strategici e di favorire scelte irrazionali e controproducenti per la collettività. Viceversa, una linea guida non irragionevole per non alimentare l’invidia sociale e non permetterle di espandersi a dismisura, con gravi pericoli per la stessa democrazia, potrebbe essere la seguente: chi è stato meno colpito dalla crisi dia una parte del vantaggio relativo di cui ha goduto alle categorie più svantaggiate fino a quando la crisi non sarà superata. Certo, per intraprendere una simile strategia ci vorrebbe un accordo bipartisan, e un governo che fosse davvero in grado di rappresentare tutti, magari sotto la guida di una persona di comprovata competenza e affidabilità. Il tener conto dei pericoli sediziosi veicolati dall’invidia sociale potrebbe essere una ragione in più per auspicarne la nascita in tempi brevi.

Aggiornato il 01 giugno 2020 alle ore 12:26