Fenomenologia di un magistrato giacobino incorruttibile

lunedì 1 giugno 2020


Piercamillo Davigo è di un’altra razza. Non può essere confuso, come talvolta si fa su alcuni giornali, con un qualunque magistrato politicizzato e magari carrierista. Davigo è agli antipodi di quel tipo di magistrato e ne è anzi un nemico feroce. Chi lo confonde con un magistrato politicizzato si fa sfuggire il cuore giacobino e gnostico che sta al fondo del giustizialismo italiano e che, però, fornisce al “Partito dei giudici” (o meglio, dei pm) e al “circo mediatico-giudiziario” l’alibi etico-politico e la falsa coscienza per poter usare il potere giudiziario a fini ideologici e politici di parte e di carriera personale.

Dalle sue frasi e dai suoi atti (dalla sua “fenomenologia”) si trae la netta sensazione, infatti, che Davigo, come facevano i giacobini della Francia del 1793-94, si senta una sorta di sacerdote “illuminato” da una dottrina infallibile e da un’etica dell’incorruttibilità. Egli si sente probabilmente – con altri magistrati suoi pari – un custode e un soldato di una religione molto particolare, quella della “Giustizia Sostanziale” intesa come via alla Verità Assoluta, e normalmente impedita e impacciata dai lacci e lacciuoli del garantismo formale, che garantirebbero in realtà impunità alla corruzione dilagante. La mentalità giacobina si ricollega a sua volta alla tradizione gnostica che attribuisce agli illuminati “figli della luce” la missione di brandire la spada angelica della giustizia per purificare la società dai corrotti “figli delle tenebre”, soprattutto politici e funzionari pubblici predestinati e vocati al Male.

Prendiamo in esame alcune frasi ormai famose del nostro Davigo. La più recente è stata: “Lerrore italiano è dire: aspettiamo le sentenze” – da lui pronunciata giovedì 28 maggio durante la trasmissione “Piazzapulita”. Sembrerebbe quasi che – secondo lui – basterebbe la fase dellaccusa e delle indagini a fare “giudicato”, con buona pace delle garanzie costituzionali e delle norme processuali. In realtà ciò già accade quando qualcuno incappa nella gogna mediatico-giudiziaria.

Davigo considera forse superflua la fase dibattimentale dei processi? Non crediamo. Non si può pensare semplicisticamente che un magistrato come lui non conosca la presunzione di innocenza (rectius: di non colpevolezza) stabilita all’articolo 27 (comma 2) della Costituzione italiana. Poiché dobbiamo escludere la semplice ignoranza delle norme, il personaggio merita unanalisi più approfondita. E allora? Proseguiamo.

Davigo stesso ha spiegato quella sua paradossale convinzione con l’esempio del vicino di casa che, invitato a cena, si porta via l’argenteria. “Aspetterò la sentenza per non invitarlo più a casa?” – si è chiesto. Ovviamente gli si è fatto notare che non sempre nei processi si ha a che fare con imputati colti in flagranza, ma normalmente con meri sospettati e indiziati. A prima vista sembrerebbe che Davigo non conosca la differenza elementare tra flagranza e sospetto, tra indizi e prove materiali, differenze su cui si fonda la civiltà giuridica. E infatti non parla mai di prove, ma sempre di indizi. “Gli indizi sono dati oggettivi” – ha detto nella stessa trasmissione. “Il sospetto è lanticamera della verità” – ha anche detto più volte in passato. Ma si può pensare davvero che Davigo non conosca quelle elementari differenze? Non siamo semplicisti. Davigo ovviamente conosce bene quelle differenze. Ma per chiarirsi le idee bisogna chiedersi: il sospetto di chi – secondo Davigo – sarebbe l’anticamera della verità? Quello del giornalista o dell’uomo comune? No, ovviamente! Quello a cui Davigo pensa è il sospetto che si forma nella mente del magistrato. Quest’ultimo sarebbe normalmente illuminato dalla sua dottrina e dalla sua incorruttibilità, a patto ovviamente che conosca bene la vera dottrina e che non sia contaminato dalla corruzione dilagante restando incorruttibile. Quando dunque a formarsi il sospetto è il magistrato illuminato e incorruttibile, sia pure sulla base di semplici indizi, sarebbero – secondo Davigo – del tutto irrilevanti le differenze sopra citate: il sospetto equivarrebbe alla flagranza, l’indizio alla prova e sarebbe una superflua e dannosa perdita di tempo la presunzione di innocenza che tra l’altro lascia a piede libero pericolosi criminali. Ma cosa conferirebbe al sospetto del magistrato una tale capacità divinatoria?

Tutto lascia pensare che per Davigo il magistrato, di norma, grazie alla virtù quasi magica del concorso pubblico da lui superato, acquisterebbe per transustanziazione e trasfigurazione, uno speciale carisma che ne farebbe un illuminato sacerdote della Verità, del Bene e della Giustizia e quindi della Virtù, dotato della capacità taumaturgica di distinguere, per divinazione, il vero dal falso, e le persone per bene” da quelle “per male”. Da dove e come nasce una simile mentalità e cultura giudiziaria anti-garantista? Come non pensare al precedente giacobino?

Anche Robespierre, detto l’Incorruttibile, era un giurista e si riteneva in possesso di una dottrina infallibile (soprattutto la filosofia di Jean-Jacques Rousseau), che unita all’incorruttibilità sua e degli altri giacobini costituiva una garanzia di retto discernimento ed azione infallibile. Saint Just, anch’egli un avvocato, riteneva compito della azione giacobina usare l’arma dei processi per purificare la società dagli individui infetti e corrotti dall’Ancien Régime al fine di edificare una società purgata dal Male. Emblematica per le analogie è la “Legge dei sospetti” del 17 settembre 1793, che stabiliva la sospensione dei diritti civili e dei diritti garantisti di difesa solo per una precisa fascia di cittadini: i nobili, gli emigrati, i preti refrattari e i funzionari pubblici ritenuti a vario titolo “corrotti” e “controrivoluzionari”.

Ebbene, non rivelò forse una pulsione giacobina e rivoluzionaria Davigo quando assegnò al pool di “Mani pulite” il compito di “rivoltare l’Italia come un calzino”?

Anche per i giustizialisti italiani come Davigo, solo per una certa fascia di cittadini non dovrebbero valere le garanzie costituzionali. E chi sono? Sono i politici, i funzionari pubblici e i “pochi” magistrati per male, quelli che lui chiama “mele marce”. Quando Davigo disse “non esistono politici innocenti, ma solo non ancora scoperti”, si riferiva solo – come ha precisato di recente – al processo per la metropolitana di Milano e non a tutti i politici. Ma quando dice che “non bisognerebbe aspettare le sentenze”, tutti comprendono che intende dire che solo per i politici e i pubblici funzionari dovrebbe bastare un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio perché si debbano dimettere senza indugio. “E invece in Italia aspettano i carabinieri e talvolta aspettano al loro posto anche dopo i carabinieri” – ha infatti aggiunto. Bisogna chiedersi: non sa forse Davigo che nella fase delle indagini la gogna mediatico-giudiziaria colpisce politici e cittadini comuni, politici e cittadini sia colpevoli, sia innocenti? Non sa che la sua teoria conferirebbe ai magistrati politicizzati un’arma per eliminare dalla scena pubblica gli avversari suoi e del suo gruppo politico. Certo che lo sa, ma tutto lascia pensare che ritenga che questo sia bene e che se qualche innocente venga penalizzato, alla fine poco male.

Ma il nucleo del suo pensiero – a quanto sembra – è che, salvo sparute eccezioni, la vera garanzia del perfetto funzionamento del sistema giudiziario e cioè che esso non travalichi dai propri limiti e confini e non diventi arbitrio, sarebbe il carisma e l’incorruttibilità del magistrato illuminato dal possesso della “vera dottrina”. Le garanzie giuridiche formali sarebbero solo un impaccio ed un impedimento perché siano eliminati dalla scena pubblica i molti politici e funzionari corrotti ed i “pochi” magistrati “per male” in circolazione. Non a caso, Davigo al Consiglio superiore della magistratura ha scelto la sezione disciplinare: quelle – secondo lui poche – mele marce vanno eliminate dalla magistratura proprio come i – secondo lui tantissimi – politici e funzionari pubblici corrotti perché trionfi la Giustizia ed il Bene assoluto.

Alla base della mentalità dei magistrati giustizialisti come Davigo – come quella degli stessi giacobini di fine Settecento – c’è un afflato religioso molto simile a quello dei manichei gnostici del primo cristianesimo. Anche gli gnostici si sentivano in possesso di una vera dottrina (la gnosi) che, unita alla grazia divina, ne faceva dei “puri figli della luce” e conferiva loro il carisma ed il discernimento necessari predestinandoli alla missione di liberare il mondo dal Male e in particolare di purificare la società dai “figli di un Dio malvagio delle tenebre”. I discendenti contemporanei di quegli illuminati gnostici pensano e sentono come se, con il concorso in magistratura, avessero ricevuto, insieme alla “vera dottrina” giuridica, anche una sorta di unzione divina e un carisma sacerdotale a loro trasmesso dai loro Pari più anziani, proprio come ai vescovi il carisma di Pietro viene trasmesso dai vescovi anziani con limposizione delle mani nella cosiddetta “catena di Pietro”.

Ebbene, per tali persone, quella dottrina e quel carisma sarebbero sufficienti a conferire loro la capacità di identificare, quasi per divinazione suffragata da semplici indizi, i “figli delle tenebre” (dediti al male e ad esso predestinati) e per purificare la società dai soggetti “per male” e soprattutto dai politici, da essi percepiti come vocati quasi tutti al male, salvo prova contraria. E dunque presunti colpevoli, al contrario dei magistrati che sarebbero presunti innocenti, in ciò assimilati alla innocente società civile. Per le persone illuminate da questo carisma gnostico e manicheo è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un politico sia una persona “per bene” e che un magistrato sia, invece, una persona “per male”. Un politico “per bene” è un’eccezione trascurabile, così come lo sarebbe un magistrato “per male”.

Scendendo dalle altezze della metafisica gnostico-manichea alla realtà dei nostri giorni, in cui è stato scoperchiato il verminaio della magistratura organizzata e del Csm lottizzato tra le correnti della non innocente casta dei magistrati, va rilevato che la mentalità giacobina di magistrati incorruttibili come Davigo fornisce un alibi etico-religioso a pratiche giudiziarie ed a condotte personali che non hanno nulla di etico né di religioso. E che ci tratteniamo dal definire pratiche da cupola mafiosa solo per carità di patria e rispetto alla magistratura nel suo insieme.


di Lucio Leante