La propensione a decontestualizzare la storia e il nuovo totalitarismo

lunedì 15 giugno 2020


La proposta di rimuovere la statua dedicata ad Indro Montanelli dai giardini pubblici di Milano che portano il suo nome non poteva che far discutere. Dopo l’uccisione di George Floyd, i Santinelli e altre associazioni di cittadini milanesi ritengono che Montanelli sia stato un fascista e un razzista, e che quindi la sua figura non possa essere portata ad esempio dei cittadini attraverso un monumento pubblico. Inoltre, e la cosa appare se possibile ancora più grave, viene accusato di aver acquistato una schiava sessuale bambina. Ora, la prima delle due contestazioni mosse a Montanelli è vera “per un certo periodo”, e la seconda lo è “in un certo senso”: la prima perché, per ammissione dello stesso Montanelli, in gioventù, quando aveva circa 25 anni e partì come volontario per partecipare alla campagna d’Etiopia, era fascista, come la maggior parte degli italiani allora; la seconda invece perché la grande maggioranza dei cittadini bianchi del mondo, sia che fossero italiani, europei o statunitensi, nel 1936 pensavano che le popolazioni africane di colore fossero sotto qualche profilo “inferiori” alle popolazioni bianche occidentali, chi per ragioni storico-culturali, chi per ragioni razziali, chi per entrambe. In questo senso, e per questo motivo, coloro che tacciano oggi Montanelli di razzismo non potrebbero che considerare “razzisti” anche loro, finendo così col giudicare per lo più razzista un’epoca storica.

Uno che potrebbe oggi, in base a un simile criterio, essere tacciato di razzismo è, per esempio, Albert Schweitzer. Il grande medico e musicista alsaziano, premio Nobel per la pace nel 1952, che passò gran parte della sua vita a curare bambini e adulti a Lamabaréné, in Gabon, pensava che qualsiasi processo di decolonizzazione fosse allora prematuro, perché la maggior parte delle popolazioni africane erano incapaci di governarsi da sole senza innescare delle sanguinose guerre civili. Schweitzer, che Albert Einstein definì come la persona più buona del mondo, considerava infatti gli africani come “fratelli minori”, da “seguire” ancora per un po’. I fatti gli hanno poi dato ragione, confermando pienamente le sue previsioni, ma la lettera che scrisse allora a Charles de Gaulle per indurlo a desistere dall’abbandonare l’Africa a se stessa rimase senza esito. Probabilmente anche Montanelli era convinto di qualcosa del genere, e se fu un “razzista” lo fu semmai perché considerava quelle popolazioni “arretrate” (e non per colpa loro) sotto il profilo culturale piuttosto che per ragioni propriamente “razziali”. In ogni caso, se anche la prima contestazione può risultare giustificata se riferita alla metà degli anni trenta del secolo scorso, e se la seconda può risultare verosimile solo in un senso molto generico e storicamente poco significativo, la terza, ovvero quella per cui sarebbe una sorta di colonizzatore pedofilo, risulta però decisamente forzata e fuorviante.

Ma procediamo con ordine: quando Montanelli arriva in Africa gli viene consigliato dal suo “sciumbasci” (ossia dal suo attendente di colore che coordinava il battaglione eritreo) di prendere moglie, così come fanno molti ufficiali delle truppe d’occupazione italiane. La ragione è duplice: il suo attendente etiope lo consigliò di sposarsi sia perché in questo modo avrebbe avuto maggiore autorità sulle milizie locali che ricadevano sotto il suo comando, sia perché per un soldato o un ufficiale impegnato a combattere l’unico modo per avere ogni tanto a disposizione, in zone dove l’acqua non è spesso disponibile, della biancheria pulita era quello di ammogliarsi. Poiché l’età a cui le donne erano solite sposarsi in quel contesto coincideva con gli anni immediatamente successivi alla pubertà, le ragazze da marito avevano grosso modo quell’età, perché quelle più grandi erano in genere già sposate e avevano già dei figli. A Montanelli ne venne proposta una, Destà, che pagò al padre com’era usanza fare secondo la consuetudine del “madamato”, di 14 anni. Per tutta la sua permanenza in Africa questa giovanissima moglie ebbe il compito di lavargli la biancheria e di riportargliela pulita ogni 15 giorni raggiungendolo, insieme alle mogli degli ascari che erano con lui, nella postazione dove nel frattempo il suo plotone si fosse spostato.

Durante i loro incontri, Montanelli stesso riporta anche che ci fu un non semplice approccio sessuale a causa dell’infibulazione cui Destà era stata sottoposta da bambina, ma tutto lascia intendere che tali tipi di rapporti furono assai sporadici. In ogni caso, per tutte le ragazze di quell’età in Eritrea era allora normale essere comprate da qualche marito, locale o importato che fosse. Fu dunque vera “servitù sessuale”? Dal punto di vista del contesto socio-culturale della ragazza no, perché tutte le ragazze della sua età avevano normalmente rapporti sessuali con i mariti che le avevano comprate dal padre. Più complesso sarebbe invece rispondere alla stessa domanda anche dal punto di vista del contesto socio-culturale da cui Montanelli proveniva: se da un lato infatti, per sua stessa ammissione, non sarebbe mai stato disposto a sposare una ragazza occidentale in età puberale dopo averla comprata dal padre, in quel contesto non gli parve immorale, decidendo di adottare come paradigmi etici di riferimento quelli della società di cui era entrato a far parte. Per questo motivo non considerò scandaloso consumare un matrimonio con una ragazza che, sebbene troppo giovane per i suoi parametri occidentali, non lo era per la società locale; una ragazza che aveva regolarmente sposato con il consenso di una famiglia che riteneva, come accadeva un tempo anche in molte famiglie italiane, la consumazione del matrimonio un atto “doveroso”.

In ogni caso non risulta che il rapporto che ebbe con lei sia stato violento, come si può evincere anche dal fatto che, dopo la partenza di Indro, quando lei si fu risposata con un altro soldato suo sottoposto, continuò a manifestare affetto e riconoscenza per il primo marito, tanto da voler dare il suo nome al primo dei suoi figli. Lo stesso Montanelli riassume così la vicenda dalla sua Stanza del Corriere della Sera del 12 febbraio 2000: “... Dopo la fine della guerra e delle operazioni di polizia, uno dei miei tre “bulukbasci” che stava per diventare “sciumbasci” in un altro reparto (si tratta di gradi militari delle truppe indigene), mi chiese il permesso di sposare Destà. Diedi loro la mia benedizione... Nel 52 chiesi e ottenni di poter tornare nell’Etiopia del Negus e la prima tappa, scendendo da Asmara verso il Sud, la feci a Saganeiti, patria di Destà e del mio vecchio bulukbasci, che mi accolsero come un padre. Avevano tre figli, di cui il primo si chiamava Indro. Donde la favola, di cui non sono mai più riuscito a liberarmi, che fosse figlio mio. Invece era nato ben 20 mesi dopo il mio rimpatrio...”

Non sembra dunque esserci stata da parte di Montanelli alcuna violenza né alcuna imposizione sessuale oltre quella perpetrata abitualmente all’interno della società d’origine di Destà, per quanto invece possano comunque rimanere legittimi dubbi sulla legittimità morale della sua scelta dal punto di vista del contesto socio-culturale da cui Montanelli proveniva. Il problema, però, a questo punto è diverso: se dovessimo infatti spazzare via la memoria di tutti gli artisti, scrittori, filosofi, giornalisti, musicisti, scienziati o politici che a 25 anni, nella loro vita privata, hanno assunto comportamenti moralmente discutibili la lista di nomi illustri sarebbe particolarmente lunga, e se dovessimo aggiungere a tale lista quella di coloro che nel 1936 potevano essere definiti o si definivano fascisti, o che potevano essere considerati “razzisti”, nel senso che consideravano culturalmente arretrati o inferiori le popolazioni africane, la lista diverrebbe ancora più lunga: si svuoterebbero non solo molte piazze dei loro monumenti, ma anche molte antologie scolastiche e molti musei.

Una simile tendenza a voler “ripulire” la storia da quanto oggi non sarebbe ammissibile dalla nostra evoluta coscienza potrebbe essere riconducibile a quanto Benedetta Tobagi ha scritto sulle colonne di Repubblica sabato 13 giugno, ovvero al “deficit di memoria storica che affligge la maggior parte della società. Il senso comune storiografico è paurosamente impoverito, per lo più si galleggia in un eterno presente. Il problema non è soltanto che le cancellazioni forzate hanno un inquietante sottofondo orwelliano, roba da stalinisti o talebani. Eliminata la statua, esaurita l’emozione del momento, che cosa si lascia a futura memoria delle ragioni della sua rimozione, per contrastare l’ignoranza generale?”. La presente pulsione a sopprimere, decapitare o imbrattare monumenti, da quello di Cristoforo Colombo a quelli di Winston Churchill e di Montanelli, è espressione d’un risentimento greve verso la storia, verso le diverse visioni del mondo che l’hanno caratterizzata, verso le sue molteplici culture e civiltà. Siamo di fronte, in altre parole, a una forma di revisionismo ben più radicale e arrogante di quello che è stato ingiustamente imputato allo stesso Montanelli: siamo di fronte ad una vera negazione della storia, negazione che potrà avere come principale conseguenza solo quella d’impedire in futuro la possibilità di comprenderla e che pare molto simile alla censura sistematica perpetrata dai regimi totalitari di ogni specie.

Anzi, c’è da temere che proprio la pulsione decontestualizzante che la ispira preluda a una forma pericolosa di totalitarismo, quella propugnata da coloro che pensano di poter applicare le loro emancipate concezioni etico-politiche al passato, d’essere cioè esponenti d’una forma astorica e superiore di saggezza o di giustizia, quasi che il tempo li avesse consacrati quali portatori delle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità e come se fossero stati incaricati di redimere la storia e di epurarla dal male con qualche censura a posteriori, che in realtà può essere soltanto figlia della propensione eterna a giudicare senza voler capire.


di Gustavo Micheletti