La trasfigurazione etica delle regole

I romani dicevano “Ne cives ad arma ruant”. Noi, oggi, parliamo, come ricorda Marco Siragusa, di tributo alla ragione, enfatizzando la funzione pacificatrice del diritto. Volgendo lo sguardo verso lo scopo perseguito dal diritto – la composizione dei conflitti e la rimozione delle ingiustizie – abbiamo, tuttavia, commesso un errore, che ci ha indotti a creare un sistema escatologico, nel quale il fine ultimo è la realizzazione del bene, la sua vittoria sul male. Questo, tuttavia, non è diritto, ma trasfigurazione etica delle regole e imposizione di una visione del mondo religiosa, orientata alla catarsi delle anime di chi giudica, prima ancora di chi subisce.

Nei mesi scorsi, destò grande ilarità la descrizione del processo fatta dal Guardasigilli pro tempore, secondo il quale il processo si avvia con l’iniziativa del Pubblico ministero e si conclude con la condanna. Alfonso Bonafede, senza saperlo, interpretava un sentire comune e descriveva quello che, secondo il sentire dei più, è lo scopo del processo: punire, cancellare il male e ristorare il bene. Di qui al giustizialismo, il passo è breve. Per certi versi, è un passo obbligato.

Robespierre, al processo contro Luigi Capeto, disse che il solo sottoporre l’accusato al processo avrebbe comportato l’accettazione della ipotesi della sua innocenza, esattamente come Jakson, aggiungendo che le prove della sua colpa stavano nel cuore di tutti i francesi. Anche qui, esattamente con Jakson. La verità, però, la disse a suggello del suo intervento: “Il re deve regnare o morire”. Dovremmo interrogarci ancora su queste cose. O diventeremo come Alfonso Bonafede.

Aggiornato il 06 luglio 2020 alle ore 13:39